Welfare, ora serve una rivoluzione liberale
Il fallimento di ogni politica sociale in Italia è indiscutibile. Ammesso che l’Italia ne abbia mai posta in essere qualcuna compiutamente. L’emergenza vera e gravissima, che è sotto gli occhi di tutti, è quella sociale ma nessun intervento si sta seriamente programmando in questo senso.
L’incultura che della problematica sociale abbiamo in Italia è assolutamente profonda e pesantissima. La reale vergogna è che nessuna parte politica se ne sia fatta e se ne faccia veramente carico.
Questa è la nazione delle riforme sociali incompiute e pressappochiste: dallo scioglimento degli Enti cosiddetti inutili nel 1970 alla legge 180; dalla chiusura delle Scuole speciali alla legge 104; dalla legge 328 alla riforma del Titolo V della Costituzione. Altri servizi hanno “goduto” della stessa pervicace negligenza; ad esempio la scuola nella quale il tempo pieno è, per molti, una vera chimera. Tutti interventi normativi apparenti o rimasti in gran parte sulla carta che hanno, perciò, provocato danni sostanziali alla tenuta del sistema Stato ed alle categorie alle quali avrebbero dovuto teoricamente apportare benefici. Nessuna di queste norme ha mai sancito, peraltro, che l’Assistenza sociale è un servizio pubblico. Incompiute tragicomiche ed assurde per un paese civile ed, insieme, fallimenti cocentissimi per uno Stato che voglia ancora definirsi “di diritto”. Vergogne assolute e mortificanti che hanno scaricato tutto il peso dei loro mancati interventi sulle famiglie che si vedono costrette a ricorrere ai giudici per tentare di tutelare, non sempre con successo, i diritti dei soggetti deboli che assistono.
Nessuna parte politica può dirsi estranea a questi fallimenti.
Nell’ultimo ventennio, poi, il liberalismo è scomparso per lasciare il posto ad un cinico ed insulso ultraliberismo che, invece di porsi come mediatore nel gioco sicurezza/libertà, assicurando che gli individui o la collettività fossero esposti ai pericoli il meno possibile, proprio in nome della sicurezza ha lasciato sempre più solo il cittadino. Si è anzi arrivati persino a teorizzare seriamente circa l’esistenza di nuove categorie di diritti: quelli sostenibili (economicamente). Ponendo così le basi per governi sempre più ingiusti, forti e repressivi. Ovviamente a danno dei deboli e della classe media. Nell’ultimo decennio, poi, è stato sperperato un patrimonio di 700 miliardi, dovuto ai benefici dell’euro ed alla riduzione dei tassi, e si è lasciato spazio ad ogni possibile personalismo ed egoismo anche sostenendo ed “imbarcando” qualunquistiche espressioni di sottocultura movimentista. Il tutto al solo scopo di restare cinicamente al governo.
L’altra parte politica si è lasciata trascinare nel gioco al massacro sul campo del rischio e della rincorsa verso la sicurezza, dimenticando completamente che antagonista di certi totem è soltanto la prevenzione dei fenomeni di impoverimento sociale, culturale ed economico. Non la loro repressione che entra in ballo una volta che detti fenomeni si sono manifestati divenendo emergenze ed, in quanto tali, da trattare con mezzi eccezionali. Ciò non vale soltanto per i servizi sociali ma anche per la protezione civile ed ambientale.
Oggi stiamo subendo regole economiche impartite da una CE che non si rende conto che tra noi e le altre nazioni europee, Germania e Francia in testa, c’è soprattutto una differenza: noi non abbiamo un welfare forte, penetrante e ben organizzato che consenta alla nostra società di reggere al contraccolpo economico; loro, invece, si. Soprattutto, al contrario degli altri, noi non abbiamo un valido sistema di assistenza sociale.
Occorre allora fare un passo decisivo ed occorre farlo ora che ne abbiamo una possibilità indotta dalla crisi. Ora che si sta riaccendendo una qualche sensibilità sociale. Ora, prima che sia definitivamente tardi e che prendano piede probabili conflitti sociali difficilmente riconducibili in alvei democratici. Ora che va prevenuta ogni deriva antidemocratica. Ora che occorre provvedere a ridare migliori condizioni di vita ed un poco di ottimismo a chi sta peggio non soltanto economicamente.
Questo passo consiste nell’invertire la polarità tra economia e welfare compiendo una vera rivoluzione liberale. Se fino ad oggi abbiamo sempre guardato al funzionamento della nostra società mettendo al primo posto le ragioni dell’economia costringendo l’uomo a seguirle e subirle, da oggi dovremmo mettere, invece, al primo posto le ragioni dell’uomo. Se è vero che l’uomo, per realizzarsi, ha bisogno di espletare un’attività (implicitamente utile alla società), è altrettanto vero che ha bisogno di libertà e liquidità (oltre che di ottimismo/tranquillità) per accedere e godere dei beni offerti dal mercato.
Quando si ascoltano discorsi economici, si entra in un ginepraio inesplicabile basato non sul benessere dell’individuo ma su quello esclusivo del mercato, quasi che sia quest’ultimo ad aver inventato ed a doversi servire dell’uomo e non il contrario. L’economia è divenuta una scienza sempre più lontana dai veri interessi dell’individuo. Basata come è su statistiche astratte ed asettiche e su calcoli delle probabilità dipendenti da macro e micro variabili, per lo più indotte da speculatori disinteressati completamente alla società che li circonda.
Proviamo ad invertire i poli. Se è vero che in un mercato sano è la domanda che provoca l’offerta, agiamo allora decisamente sulla domanda e, quindi, sul potere d’acquisto delle persone. Se avremo persone che comprano di più avremo aziende che producono di più e che quindi creano un maggior numero di posti di lavoro. Agiamo avendo come prima preoccupazione le condizioni di vita quotidiana delle persone. Diamo innanzi tutto sostegno e servizi reali, concreti a chi ne ha bisogno per non farlo rinunciare alle proprie libertà e, tra queste, a quella di accedere al mercato.
Interesse primario dello Stato non può che essere quello di garantire ai propri cittadini i loro diritti e non di riconoscerglieli solo quando è economicamente possibile, sostenendo maggiormente quelli dei più deboli perché alla lunga entrino anch’essi nel circuito produttivo e cessino di gravare sullo Stato. Negare i diritti significa distruggere la democrazia ed i principi di libertà che la animano ed è estremamente pericoloso intraprendere questa strada. Una strada della quale abbiamo già un esempio chiarissimo alle spalle.
La crisi del 1929, meno grave di quella che stiamo vivendo, portò, in Europa, nonostante i protezionismi, alla crisi dei sistemi paese, alla caduta dei governi liberali e monarchici ed all’ascesa degli assolutismi fascista e comunista. Si concluse solamente con la seconda guerra mondiale e con lo sterminio di milioni e milioni di giovani mandati al massacro, in fondo, a causa di quei motivi economici che avevano provocato la crisi.
La nostra coscienza di oggi ci deve costringere a riprendere le redini della nostra società rimettendo al centro del sistema l’uomo ed i suoi diritti. Tornando a garantirgli libertà di accedere ad un mercato sano e regolato prima che sia troppo tardi.
L’obiezione più ovvia a questo discorso è che, al momento, lo Stato italiano non ha le risorse per affrontare questo problema nel modo qui indicato. Ebbene, se questo è momentaneamente vero per quanto attiene all’immissione di risorse (ma solo parzialmente perché non sono stati aggrediti capitoli del bilancio dello Stato che determinano spese verso l’esterno che non ci possiamo più permettere. Tipo quelle per le missioni all’estero) ed ammesso che non si possa arrivare, come da più parti si suggerisce, ad immettere nell’economia liquidità in misura maggiore, non è vero per quanto attiene a possibili razionalizzazioni dei sistemi ed all’organizzazione della macchina statale.
Per esempio (anche approfittando della revisione del sistema delle Province), quali e quanti benefici, sia in termini di erogazione di fondi che di gestione, porterebbe l’accorpamento in capo ad un solo Ente (per esempio la ASL) di tutte le funzioni di assistenza sociale (rivedendo quella pessima riforma del Titolo V)? Idem per il sistema di gestione dell’immenso e male amministrato patrimonio immobiliare scolastico, oggi diviso tra Provincie e Comuni. E così via.
Tutte questioni che possono essere affrontate con l’urgenza che meritano senza comportare troppi scostamenti di bilancio ma che potranno essere utili soltanto se l’obiettivo finale non sarà quello di favorire ora l’uno ed ora l’altro settore sociale o lobby, in una rincorsa senza fine, ma se l’obiettivo sarà, invece, la stella polare dell’interesse dell’individuo e dello Stato.
Non contrapposti ma affiancati in un percorso virtuoso di cambiamento.
Mauro Chilante, Responsabile Welfare