Sconfiggere l’antipolitica
Si parla molto, direi troppo, di antipolitica, un fenomeno che come vocazione primaria si propone di devastare la politica esistente, considerata non solo insufficiente, fallimentare, corrotta, ma una sorta di male assoluto, responsabile di aver dilapidato le finanze statali, di aver corrotto il senso stesso dello Stato, deviato il ruolo originario delle istituzioni politico-parlamentari.
In realtà l’antipolitica c’è sempre stata, palesandosi nelle forme più adatte all’epoca in cui andava emergendo ed assumendo lo stile, il linguaggio, le parole d’ordine del proprio ispiratore. In ogni epoca, essa è sempre autoritaria, perché deriva dal messaggio forte, a volte dissacrante, che promana dal capo e viene ripetuto ossessivamente, nella presunzione che una singola affermazione, amplificata un numero infinito di volte, finisca col diventare una sorta di verità acquisita, praticamente incontestabile.
Alla base dell’antipolitica, c’è il populismo (l’esatto contrario dell’individualismo) che porta alla omologazione, all’attaccamento cieco al leader, alla ricerca di un’impossibile alternativa globale. Tutti i movimenti di questo tipo, dal fascismo al Peronismo, al castrismo, al chavismo hanno in comune un decalogo di parole d’ordine da inculcare come un catechismo ai propri seguaci. Un’antipolitica che coltivasse il seme del dubbio, sarebbe anacronistica. Oltre al cesarismo, essa ha bisogno del nemico, dalla cui esistenza deriva la propria stessa ragion d’essere. Le parole d’ordine più o meno si assomigliano: “dare tutto a tutti, eliminare i ladri, sconfiggere la Casta, espellere dal sistema i caudatarii della politica decadente e corrotta”. Sul come, invece, le risposte sono sempre più fumose ed a volte persino ingenue o del tutto mancanti.
Il primo a cavalcare l’Antipolitica in un’Italia provata dalle conseguenze della Grande Guerra, fu Benito Mussolini ed ebbe molto successo. I suoi proclami, all’insegna del nulla, colmi di espressioni roboanti ed intrisi di una supponente superficialità, il più delle volte, non corrispondevano a niente di concreto, si esaurivano in rituali ridicoli o, peggio, in insopportabili atti di prepotenza.
Nel secondo dopoguerra emerse un tentativo di dare all’antipolitica un maggiore spessore, persino di carattere culturale, grazie alla caratteristiche del suo ispiratore, Guglielmo Giannini, uomo colto, giornalista, grande polemista, che si limitò a cogliere e mettere in evidenza alcune debolezze del popolo italiano ed i difetti tipici della classe politica, cercando così uno spazio per il suo movimento, ispirato all’italiano medio: l’Uomo qualunque, appunto, che chiedeva di essere rappresentato. Ma durò poco per la contraddizione insita in una iniziativa populista, che in realtà, consapevole dei vizi, ma anche delle difficoltà della società italiana, proponeva soluzioni inattuabili, esclusivamente in chiave polemica con i gruppi dominanti. Questi ultimi, sferzati da una feroce ironia, rifiutarono ogni forma di dialogo. L’isolamento portò presto alla completa dissoluzione del movimento.
Anche le formazioni paramilitari e terroristiche sorte dopo il ‘68, all’insegna di uno spirito rivoluzionario, di destra come di sinistra, costituirono un tentativo di organizzare, in nome dell’antipolitica, anzi persino in forma rivoluzionaria, una alternativa alla politica politicante che, ritenuta fortissima, veniva combattuta con sortite terroristiche devastanti nell’auspicio che, un giorno, alle avanguardie studentesche, si sarebbero aggiunte le masse operaie per determinare una vera rivoluzione totale. La velleità del progetto e la ferma reazione dello Stato stroncarono la pericolosa e confusa azione destabilizzante, peraltro condotta da gruppi disarticolati e spesso in conflitto tra loro, anche se forti a causa di complicità internazionali. Fu quella un’occasione in cui il successo dell’azione statale fu pieno.
Un’altra iniziativa, sempre di matrice antipolitica, intanto si insinuava in una parte del Paese, facendo leva sui sentimenti più barbarici di un Nord che dopo aver spogliato, in seguito all’Unità d’Italia, le casse dello Stato delle due Sicilie delle sue ingenti riserve auree per pagare i debiti delle guerre d’Indipendenza, non aveva voluto, né saputo portare il progresso nelle Regioni Meridionali. La Lega fondò il suo messaggio qualunquistico sulla secessione, che avrebbe consentito alle Regioni del Nord di sottrarsi all’obbligo di solidarietà solennemente promesso al Mezzogiorno, al quale lo Stato unitario non ha mai assolto.
Il capolavoro dell’antipolitica fu realizzato da Berlusconi nel ‘94, quando si presentò con un programma accattivante, una classe dirigente nuova e la promessa di realizzare la Rivoluzione liberale “a parole”, non una delle quali è stata mantenuta. Quel movimento si è disfatto in poco tempo, quando è apparso chiaro che si trattava di un partito padronale, in grado di fare soltanto gli interessi del capo, il quale consentiva, sul territorio, ad alcuni pretoriani di gestire come meglio credevano la politica locale, compresa la tolleranza verso clientelismo, collusioni e ruberie, come è andato emergendo di recente.
Nel tempo presente, il tentativo della nuovissima antipolitica è di passare dall’imprenditoria rampante (spesso spregiudicata, con la propria corte di plauditores, camerieri, ragazzotti muscolosi, soubrette ed escort) alla volgare pochade di un comico, che esprime tutto il proprio livore verso una classe dirigente che ritiene responsabile della propria emarginazione nel mondo dello spettacolo e principalmente del piccolo schermo. Altro che i nani e le ballerine evocati da Formica nella fase di maggiore corruzione del PSI craxiano! Siamo arrivati ad un giullare che, grazie alla sua verve di uomo di spettacolo, attrae notevoli consensi, ma che si guarda bene dal permettere che, accanto a lui, cresca un gruppo dirigente qualificato, perché ha fatto tesoro della lezione berlusconiana ed intende applicarla in modo ancora più rigido: “comando io solo, nessuno ha il diritto di parlare, di farsi avanti, di dire quello che pensa, perché l’unico legittimato a dettare la linea del movimento sono io”. Gli altri potranno godere soltanto dei benefici ed obbedire.
La estrema pericolosità di tale forma di antipolitica consiste nel limitarsi alla seducente denuncia di problemi reali, senza essere in grado, per sostanziale carenza culturale ed assenza di qualsivoglia bagaglio ideale e valoriale, di proporre alcuna soluzione concreta per risolverli. Coloro che, per semplice istinto protestatario, affermano di essere disposti a votare il M5S, dovrebbero soffermarsi per un attimo ad immaginare una rappresentanza di tale turba di scalmanati di fronte ai problemi reali di un Grande Paese, come l’Italia, ai suoi rapporti e impegni internazionali, per accorgersi di essere di fronte ad un’orda di aspiranti politici travestiti, neanche troppo bene, che farebbe sorridere di compassione il mondo intero se dovessero entrare nelle Istituzioni rappresentative. La protesta totalizzante, la purezza di un perbenismo scandalizzato, la ingenuità di pensare di poter cambiare il mondo soltanto con la buona volontà, il mercato delle illusioni, sono strumenti di propaganda, nella loro essenza, non diversi dalla promessa di sussidi, privilegi, posti di lavoro, pensioni sociali non dovute, di cui si è avvalsa la vecchia politica, che fondava il proprio consenso sulla capacità di corrompere.
Al di là del consenso epidermico delle piazze osannanti e del pubblico anestetizzato dal mezzo televisivo, non esiste altro che il consenso minoritario del pensiero solitario, dello scarto culturale, dell’eroico coraggio intellettuale. Questa ultima è la strada difficile, confinante con l’impossibile, da noi scelta, che ci ha portati alla completa emarginazione nell’ultimo ventennio e che ci auguriamo, oggi, possa trovare qualche spazio in chi vuole usare la ragione e, per questo intende scendere in campo in prima persona, soprattutto i più giovani, che sanno di doversi conquistare, combattendo, un avvenire che altrimenti vedrebbero precluso.
Bisogna convincere questi giovani, ma anche i meno giovani coraggiosi e consapevoli, che tutto è difficile, ma che non ci si può rassegnare al naufragio. Ad essi mi piace ricordare il messaggio di una grande liberale, che fu Presidente del Parlamento Europeo, Simone Weil, la quale invitava a tentare con “coraggio visionario” ciò che non è stato ancora pensato, invitando ad evitare il baratto della propria “luce interiore” con le finte promesse dell’opinione e del potere.
Il PLI, è stato per anni presidio etico e culturale, geloso custode di un grande patrimonio che non poteva, nel momento più difficile, non venire riscoperto come l’unico percorso per il salvataggio del Paese e dell’Europa intera. Rifattosi di recente soggetto politico a tutti gli effetti, si pone come punto di riferimento identitario e paladino della libertà, in una società che ha smarrito ogni rapporto tra etica, cultura e politica, con l’obiettivo di coinvolgere nel necessario processo di cambiamento, al posto della solita corte dei miracoli, la parte più avveduta del Paese.
Tratto da Rivoluzione Liberale