Roma: si tratta di associazione mafiosa?

Roma: si tratta di associazione mafiosa?

Come tutti, sono rimasto colpito dalla decisione della Procura di Roma di accusare la banda degli affari sul Campidoglio di associazione mafiosa. La grande stima che nutro verso magistrati come Pignatone ed il suo aggiunto Prestipino, che conosco da molto tempo, ma di cui principalmente ho sempre apprezzato la serietà, il rigore giuridico, la mancanza di pregiudizi di ordine politico, mi ha indotto ad un necessario approfondimento. In effetti la disinvoltura con la quale la banda di affaristi si muoveva e che trasuda dalle intercettazioni, rappresenta un indizio concreto della esistenza di un tessuto organizzativo di stampo associativo, che si esprimeva in un dominio di fatto sull’amministrazione della capitale, in grado di affermare la supremazia del proprio potere intimidatorio e di corruzione trasversalmente, qualunque fosse il colore della Giunta capitolina. Ma tale osservazione da sola forse sarebbe insufficiente a qualificare l’associazione delinquenziale tra quelle di stampo mafioso. Infatti il reato previsto dall’art.416 bis del codice di procedura penale, impone qualcosa di più pregnante, che si espanda al contesto sociale ed alla tradizione di degrado sottoculturale circostante.

Dal momento che vivo tra Palermo e Roma da circa quarant’anni, mi è sembrato di poter cogliere il senso della intuizione degli accusatori, forti anch’essi della loro estrazione palermitana e di una lunga esperienza professionale in quella realtà. Infatti nel sottobosco delle periferie romane e nel rapporto affaristico con la politica locale si respira unhumus che riconduce allo scenario ambientale in cui si muove la mafia.

Il degrado, l’incultura, l’arte di arrangiarsi, insieme alla radicata violenza delle aree periferiche, possono essere effettivamente fattori in grado di dar luogo al tipo specifico di criminalità, definito di stampo mafioso.

Se così non fosse, se ne dovrebbe dedurre che il fenomeno, limitato ad una connotazione tradizionale territoriale così specifica e radicata, non potrebbe riguardare che le tre o quattro regioni, dove tradizionalmente si è radicato. La semplice esportazione al Nord, attraverso esponenti meridionali, soprattutto calabresi, non è stata considerata sufficiente a dare la connotazione di mafiosità, perché potrebbe trattarsi di una sorta di cancro, che tuttavia non riesce a far breccia sul mondo esterno col quale si confronta. A Roma invece, quello che emerge dall’odierna inchiesta, si palesa come un fenomeno locale con caratteristiche ambientali e strutturali del tutto simili a mafia, ndrangheta e camorra.

Basterebbe tener conto dell’esistenza di una antica e radicata particolare violenza, rossa e nera, presente in tutti i quartieri periferici romani, che non si è limitata ad atti episodici, ancorché eclatanti, come quelli della banda della Magliana, ma che oggi ha raggiunto un controllo sistematico del territorio, basato su una forte capacità di intimidazione. La vena politica estremista, rossa o nera che sia, viene utilizzata anche come collante nei confronti di coloro che non appartengono direttamente all’organizzazione, ma che vengono coinvolti attraverso iniziative prevaricatrici, anche di tipologia disparata, come, per esempio, il diffuso fenomeno della occupazione di immobili, con le relative complicità amministrative e politiche. Allo stesso tempo, gli elementi di spicco dell’organizzazione utilizzano la propria forza di organizzazione crimunale ed il consenso, conquistato nei quartieri più degradati, come merce di scambio con una politica molle, incolta, qualunquista ed affarista. Ad essa viene offerta la mobilitazione per i confronti interni ai partiti, (per esempio il sostegno alle primarie o ai congressi) nonché il sostegno attraverso i voti di aree strettamente controllate, in cambio di lauti affari ai danni di un bilancio pubblico, tanto disastrato quanto ricco, per le continue generose elargizioni dello Stato alle finanze della Capitale.

Tutto questo è nient’altro che mafia, la quale fonda il suo potere su una stabile organizzazione con grande capacità intimidatrice, radicata su un territorio. Questa intrattiene solide relazioni con la burocrazia parassitaria ed è in grado di offrire uno scambio elettorale ed economico ai ranghi più permeabili di un sottobosco politico incolto, che purtroppo spesso negli ultimi anni ha raggiunto anche vertici elevati di responsabilità.

Nessuno ha mai osato cimentarsi nel delicato lavoro di approfondimento relativo agli intrecci tra mondo politico, cooperative e strutture burocratiche del cosiddetto triangolo rosso dell’Emilia Romagna, Toscana ed Umbria, dove la forza di intimidazione, tutta squisitamente politica, scoraggia qualsiasi tentativo di indagine seria su un metodo che ha consentito lo sviluppo di realtà economiche importanti, le quali in quelle zone hanno operato in forma privilegiata e quasi monopolistica, creando colossi economici di enormi dimensioni. In quelle aree si registra una complicità trasversale nell’intero settore pubblico, fondata sulla spregiudicatezza di un potere politico ed amministrativo tutto appartenente alla medesima parte, che non consente a nessun altro di penetrare ed allo stesso tempo di godere degli enormi vantaggi fiscali del mondo cooperativistico e delle ulteriori agevolazioni per il presunto scopo sociale delle relative attività, che invece si dispiegano realizzando forme di concorrenza sleale nei confronti delle altre imprese di natura privatistica. La medesima metodologia è stata esportata nelle Capitale.

La intuizione del Procuratore Pignatone a Roma, dove quello che è emerso non rappresenta che la punta dell’Iceberg di un sistema generalizzato, riguarda tutta la spesa pubblica e gli sprechi infiniti, in un intreccio antico ed inestricabile di malavita, burocrazia e politica, che imporrebbe un approfondimento, ampliando il campo di indagine a tutte le attività del Comune, come a quelle della Regione, dello Stato e degli Enti e società a capitale pubblico, che operano nella capitale. Fino a questo momento è emerso soltanto il malaffare delle cosiddette cooperative sociali nel settore più delicato dell’assistenza, dove la spregiudicatezza dell’organizzazione si rivela più abietta, ma riguarda indistintamente tutti i settori in cui vi è un qualche impiego di denaro pubblico. Quanto individuato nel caso specifico della banda Carminati, è il sistema normale di corruzione e intreccio politico mafioso in tutto il territorio romano, fortissimo perché trasversale e privo di barriere tra le diverse fazioni politiche. La presenza massiccia della Lega delle Cooperative, insieme ad altri, nel sistema ne è la prova evidente e non rappresenta che la replica di quanto essa normalmente pone in essere in esclusiva, o quasi, nei territori in cui la sinistra ha il dominio assoluto. La medesima situazione si è verificata in Sicilia e nel resto dell’Italia meridionale, da quando sono arrivate le cooperative rosse ed hanno imposto di entrare nelle spartizione degli appalti, che da allora sono stati suddivisi tra imprenditori legati alla DC od ai partiti che ne hanno preso il posto e cooperative rosse, sostenute dal PCI o dai soggetti che ne hanno proseguito la vicenda politica, con la regia della mafia, che ha assicurato il rispetto dei patti con la propria forza intimidatrice.

I confini tra associazione per delinquere semplice e di stampo mafioso sono sottili ed a volte di difficile determinazione, come controversa è stata la definizione della figura del concorso esterno in tale reato. Personalmente infatti sono stato sempre contrario alla costruzione di una categoria autonoma rispetto alla mera associazione per delinquere. A mio avviso, sarebbe stato più semplice e giuridicamente più coerente pensare ad un’aggravante per le fattispecie associative di stampo mafioso. Il risultato sarebbe stato identico, ma avrebbe consentito una più agevole applicazione in tutto il territorio nazionale, evitando la sgradevole sensazione che si fosse prefigurato uno speciale titolo di reato, limitato ad una parte del territorio nazionale, finendo col darne una definizione di tipo antropologico, che è quella che ha prevalso in una certa vulgata giornalistica semplificatrice ed anti meridionale.

Il merito della Procura di Roma è quello evidente di segnalare un allarme diffuso nel territorio della capitale, che va ben al di là dell’inchiesta avviata. La Procura di Pignatone ha aperto una nuova prospettiva per leggere il fenomeno associativo di stampo mafioso, con la possibilità di estenderne l’applicazione a tutto il Paese, ove si riscontrassero caratteristiche analoghe. Si potrebbe pervenire, de iurecondendo, ad una migliore ridefinizione della fattispecie di reato, riportandolo ad un unicum con l’associazione per delinquere, aggravata da specifiche condizioni ambientali e intreccio tra malavita, potere politico ed amministrativo, ristabilendo con chiarezza che la legge deve rispondere alla caratteristica di essere generale ed astratta ed uguale per tutti in ogni latitudine.

Poco efficace invece appare la scelta propagandistica del Governo, tipica della cultura giustizialista della sinistra, di aumentare le pene per i reati di corruzione. Sotto tale profilo la soluzione radicale del problema consiste nel ridurre drasticamente la spesa pubblica ed i connessi centri di spesa, principalmente in periferia,dove il percolo di infiltrazioni è più alto. Inoltre andrebbe separato il ruolo di chi decide (l’autorità politica) e di chi si occupa delle gare di appalto e redige i relativi capitolati (autorità unificate per ogni settore al livello regionale o nazionale). Bisognerebbe infine imporre controlli più penetranti, anche a campione in corso d’opera, da parte della Corte dei Conti.

Tratto da Rivoluzione Liberale

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