
RIFORME PER VIVERE BENE
Vi dico subito che proverò ad essere provocatore nella speranza di stimolare il dibattito. Da sempre i liberali si battono, inutilmente, per promuovere riforme che assolutamente, anche se non da sole, aprirebbero la nostra società per aggiornarne le basi post belliche. Riforme quali, ad esempio, l’abolizione del valore legale del titolo di studio, la cancellazione degli ordini e collegi professionali (con l’eliminazione dei privilegi di casta che ad essi si accompagnano concretamente o anche solo astrattamente).
Tutto ciò oggi non può che restare sullo sfondo del nostro incontro non perché a queste battaglie si sia rinunciato ma solo perché questi temi sono ormai storici ed assodati, per chi è liberale.
Occorre soltanto chiarire che le cosiddette riforme possono essere di due tipi: genericamente istituzionali e puntuali oppure di costume e complessivamente sociali. Accennerò a qualcuna rientrante nei due tipi anche perché sia chiaro ciò che penso e, cioè, che se non accompagniamo le riforme istituzionali e puntuali con una profonda revisione, anche per legge, di certi comportamenti e modi d’essere di talune strutture, soprattutto delle istituzioni o formazioni alle quali il cittadino delega la propria rappresentanza, comportamenti che sono oramai fatti diffusi di costume (o meglio, di malcostume), non risolveremo il problema del rilancio di questa Nazione.
Per fungere da premessa e sintesi efficace di quello che dirò userò perciò due locuzioni ed alcune “parole chiave”: l’uomo al centro di ogni intervento; riconsiderazione dei ruoli sociali di rappresentanza; razionalizzazione; prevenzione; precauzione, responsabilità; riqualificazione; sussidiarietà sociale. Alcune di queste parole corrispondono, e non a caso, ad altrettanti principi giuridici.
Ho volutamente allargato lo sguardo a tutto ciò che è “ambiente di vita dell’uomo” e vorrei provare a disegnare un quadro di well life nel quale il motivo guida sia una costante funzione dello Stato tesa a responsabilizzare se stesso, le varie formazioni sociali, di qualunque tipo siano, e il cittadino, in una continua e completa azione di “comunicazione”, intesa quest’ultima come processo continuo di scambio di informazioni ed interrelazioni funzionali tra Stato ed Istituzioni e tra queste e le diverse formazioni sociali non escluso, direttamente, il cittadino. Il tutto in un quadro basato su una nuova filosofia d’azione sociale, di scambio relazionale e di gestione comune dei problemi, ai vari livelli.
Certo i brevi squarci che offrirò saranno parziali ma spero efficaci ed utili a provocare, intanto e, poi, anche a tracciare con rapide pennellate un quadro sufficientemente coerente anche se certamente poco organico ed incompleto.
Sappiamo tutti che dalla società globalizzata nella quale viviamo emergono due aspetti economico sociali convergenti nei loro effetti e che possono essere identificati in due definizioni: “società del rischio” e “società liquida”. E proprio l’esistenza del rischio e della liquidità sociale impongono quel nuovo tipo di relazionalità al quale accennavo prima.
A questo aggiungiamo tratti tipici della società italiana. Le vere difficoltà per attuare vere riforme sono date dal sistema che si è mano a mano praticamente istituzionalizzato nei rapporti tra le varie parti di questa società italiana, tutte improntate ad azioni sull’individuazione e la istituzionalizzazione di privilegi, sulla distorsione di rapporti, che hanno prodotto modalità di costume sociale del tutto falsate rispetto alle funzioni o alle funzionalità dichiarate ed attese da parte varie formazioni sociali.
C’è poi pure un sentire diffuso di chi ritiene che nella nostra società proprio i liberali abbiano poche chance e, soprattutto, quasi nulla da dire anche se, a seconda dei governi che si susseguono, la stessa società è oggettivamente più o meno improntata al libero mercato, e se tutti dicono che è basata su principi liberali.
Lo Stato, inoltre, sta cedendo sempre maggiori parti di sovranità all’Europa ma, anche alle Regioni. Ed è evidente, da un lato, il coincidente fenomeno di erosione del rapporto cittadino-Stato, da un lato e, dall’altro, il conseguente aumento dell’intensità del rapporto cittadino-istituzioni locali, Regioni in primis.
Pare evidente, allora, che la qualità di questi auspicabili “nuovi” rapporti debba vedere un approccio, da parte dello Stato e delle Istituzioni, molto più accorto e diverso rispetto al passato. Molto più basato sull’attenzione ai problemi dei singoli che non di “classi sociali” ormai non più esistenti o profondamente mutate, più che sulle statistiche o le valutazioni globali o a braccio. Questo perché sono proprio lo Stato e le Istituzioni che comunque debbono essere preparate a dare risposte sempre più individuali e differenziate.
Altro aspetto da mettere in luce è che vi sono ambiti della vita sociale dell’uomo che normalmente, dalle nostre società industrializzate, sono stati tenuti in attenzione separatamente per fatto prettamente culturale, tipico delle nostre società.
Per esempio ci si occupa del corpo ma non dello spirito e viceversa. Si parla di ambiente ma si ragiona con logiche separate sull’ambiente urbano rispetto a quello extraurbano, ecc.; il tutto, ovviamente, a causa di interessi economico-finanziari che, con quelli dell’uomo-cittadino hanno molto poco a che fare. Ma soprattutto perché la parcellizzazione favorisce apparentemente un più facile aggiramento dei problemi veri che, irrisolti, continuano a permanere con l’aggiunta di nuovi problemi provocati dalle contrastanti soluzioni date a pezzi di ciascuna materia.
Si tratta qui di cambiare impostazioni culturali radicate che preferiscono, per esempio in ambito ambientale, trascurare la prevenzione e la previsione caricando di enormi oneri la società per interventi di emergenza o si tratta di trascuratezze sociali che inducono le istituzioni a non spendere nei servizi di prevenzione, per la completa e migliore formazione dei singoli e delle famiglie o per il loro sostegno sociale primario, col risultato di dover aumentare a dismisura poi gli interventi di repressione di fenomeni quali il disagio sociale, l’abbandono scolastico, la devianza e la delinquenza minorile e non, il diffondersi delle droghe, con enormi costi sociali a carico della sanità, dell’assistenza, del sistema della giustizia, di polizia, carcerario, ecc..
Vi sono costituzioni, come quella americana, che hanno formalizzato “il diritto alla felicità” e costituzioni, come quella italiana (che oggi, da questo punto di vista, mi appare fin troppo materialista), che hanno legato indissolubilmente la felicità dell’uomo quasi esclusivamente al lavoro riguardato però, non come strumento, ma esclusivamente come fine e come metro di valutazione della persona e giudizio sociale.
Per i liberali perciò, che pongono al centro del loro ragionamento i bisogni dell’uomo e che tendono a trasformare questi bisogni in diritti, tenendo presente che i diritti costano allo Stato in termini economici ed organizzativi, quello che propongo è produrre oggi uno sforzo di immaginazione diverso.
Più ampio, rivolto a coinvolgere nel processo di cambiamento tutti gli ambienti, le situazioni, le formazioni sociali nelle quali l’uomo si trova, gioco forza, a dover agire. Provando a connetterli tra loro, a guardarli il più organicamente possibile bilanciandone le funzioni. Partendo dal basso e non solo osservando o imponendo dall’alto.
Quella che vorrei provare sommessamente ad indicare è una sorta di metodo che porti, nel maggior numero di ambiti d’analisi, a conclusioni univoche rispetto ad una visione complessiva.
In questo momento nel quale alcune riforme sono state già avviate ed altre sono annunciate, è possibile ipotizzare qualche ambito e qualche tipo di intervento utile a semplificare e migliorarne la gestione e la funzionalità in funzione del miglioramento della vita dei cittadini. Ma anche a ragionare su determinati sistemi complessi e sulla effettiva rispondenza del loro funzionamento ai bisogni della società e, ripeto, soprattutto dell’individuo.
Per cominciare ad essere espliciti esistono ambiti nei quali l’uomo politico ha operato scelte scellerate che il cittadino ha subìto, per nulla condividendole e vedendosele imposte dall’alto per convinzioni politiche ed interessi del tutto estranei ai suoi reali bisogni; scelte che hanno danneggiato fortemente, o peggiorato, quando non distrutto, il suo habitat materiale e sociale. Insomma il suo ambiente.
In tema ambientale, appunto, il primo e più urgente problema è quello di far fronte ai fenomeni che con sempre maggior forza stanno colpendo il nostro territorio. Bene, un grande investimento sia infra che strutturale, il vero investimento sull’ambiente è, oggi, quello di operare interventi di risanamento e prevenzione del suolo; di prevenzione sismica, vulcanica; di prevenzione dall’inquinamento industriale da un lato, e di riqualificazione, miglioramento e risanamento urbano.
Questo sposando totalmente la visione ed il concetto di ambiente che si è ormai affermato da circa dieci anni, anche normativamente, in Europa.
L’uomo ha diritto di vivere in un ambiente salubre che prevenga i possibili danni di vario tipo e ne preservi la vita; ambiente nel quale il principio di responsabilità la faccia da padrone assoluto.
Ma l’ambiente, per definizione, non è più soltanto “la natura”. Così come all’interno del concetto è ormai pienamente inclusa la salute, così nel concetto va incluso anche l’ambiente urbano. Prima di tutto inteso come ambiente architettonico e organizzatore socio strutturale della qualità della vita.
Occorre dire basta al concetto di periferia e di urbanistica che dominano dal dopo guerra in poi e che sono di marca social comunista. Quel modello culturale e di vita, quel pensiero che mi permetto di codificare nel motto “il brutto è bello” e che oggi costringe, nelle varie periferie, migliaia e migliaia di persone che non hanno le risorse per andare altrove, a “lasciarsi vivere”, più che a vivere, in determinati quartieri carcere. Quel modello che produce devianza ed emarginazione, abbandono scolastico, ecc. e che costa cifre enormi allo Stato per la mancanza di prevenzione di questi fenomeni sociali.
Per questo occorrerebbero piani urbanistici per la delocalizzazione dei quartieri a rischio sociale ed ambientale, il risanamento, la riqualificazione e per dare servizi invece di cementificare nuove aree.
Tutto ciò facendo si che ogni piano regolatore abbia, come base fondante tecnica e giuridica obbligatoria, oltre che di principio, un piano di sicurezza ambientale, sociale e di protezione civile, magari validato scientificamente dagli enti di ricerca.
Il secondo argomento in realtà si confonde, quasi con il primo ed è quello concernente la Sanità e l’Assistenza Sociale. Fiumi d’inchiostro sono stati spesi su ambedue le materie,
– leggi su leggi di finta riforma nell’Assistenza, tutte sostanzialmente inapplicate o solo parzialmente applicate o divenute inapplicabili. Un’infinità di Enti tesi a gestire competenze e risorse parcellizzate, molto spesso duplicatrici di interventi sulla medesima persona. Senza nessun contatto le une con le altre, senza compiti e responsabilità precise delle quali rispondere concretamente al cittadino che non può difendersi vantando un qualche vero diritto soggettivo. Una riforma a dir poco ridicola del Titolo V che ha creato, col trasferimento della intera materia alle Regioni, altrettanti sistemi diversi di assistenza ed una sorta di mostro che è la Conferenza Stato Regioni. Risultato principale ne è l’evidente disparità di trattamento e la codificazione definitiva dell’impossibilità di qualificare l’Assistenza sociale come un diritto soggettivo ed un servizio pubblico. Perciò si dovrebbe procedere alla riforma dell’intero settore con la razionalizzazione delle strutture e delle risorse, personale compreso, in un unico Servizio, magari concentrato nelle Asl, con Carte dei Servizi Regionali (se dovessero restare) obbligatorie e tali da far divenire obbligatori (e quindi un diritto) i servizi in esse previsti. L’annunciata riforma del Titolo V ed anche, per alcuni aspetti, quella delle Provincie comporta comunque un prossimo riesame che dovrebbe anche riguardare la revisione dell’attribuzione esclusiva della materia alle Regioni. Fatto che contrasta oggettivamente con il diritto di ogni cittadino italiano di vedersi trattato uniformemente, indipendentemente da dove sia nato o da dove viva, soprattutto quando ciò significherebbe, per esempio per una persona portatrice di handicap, di trovarsi a risiedere in un luogo ove non poter usufruire di un servizio che, invece, la Regione accanto offra;
– Per migliorare la qualità della Sanità occorrerebbe ridurre il numero delle Asl ad una per Regione, razionalizzando, in tal modo, la gestione amministrativa e, soprattutto di bilancio, e rendendo più facili ed efficaci i controlli. Andrebbero chiuse tutte le strutture inutili. Dal punto di vista dell’ingerenza della politica, questa dovrebbe fare un sostanziale passo indietro. Per esempio i primari dovrebbero esse scelti (da parte di board scientifici esterni) esclusivamente a seguito di valutazione per meriti non di anzianità, ma solo scientifici e cioè sulla base della capacità dimostrata di operare ricerca continua e di applicare le conoscenze, e non sulla base del numero delle azioni/operazioni effettuate annualmente senza alcuna valutazione sul metodo, le tecniche, la quantità di successi nelle cure, la capacità di fare “scuola”. In questo modo si unirebbe l’interesse del cittadino ad avere cure di eccellenza con quello delle strutture che diverrebbero attrattori di utenza medica e di studio, oltre che fattori di progresso scientifico tecnico. Allo stesso modo andrebbero risolti i conflitti di interessi della classe medica (ma questo vale anche per le altre categorie professionali) che dovrebbe scegliere tra il lavoro alle dipendenze pubbliche e l’attività privata.
Il terzo tema, che è anche il primo del secondo gruppo, è quello del lavoro. L’affronterò non da economista, ché tale non sono, ma riguardandone gli aspetti socio strutturali generali. Di passaggio voglio peraltro affermare che la flessibilità lavorativa è oggi diventato il miraggio verso il quale tendere come unica possibile difesa dalla disoccupazione. Penso, invece, che la demonizzazione dell’occupazione stabile in quanto stabile, sia una grande sciocchezza. Dovunque nel mondo esistono persone che per lunghissimi periodi di tempo hanno mantenuto rapporti con lo stesso ente o con un unico ente. Ma i sistemi di reperimento e di ricambio o riconversione delle risorse umane e, da parte del lavoratore, di reperimento del posto di lavoro, sono comunque profondamente diversi ed aperti, a tempo e rimessi alle reciproche valutazioni. Se non si rivedono profondamente le norme sul pubblico impiego che risalgono ormai al 1970 e rispondono a logiche vecchie ed ormai superate, se a fianco di misure che favoriscono genericamente una chimerica flessibilità non si pongono in essere profonde riforme della funzione del Contratto collettivo aprendo ad una seria contrattazione individuale, se non si modifica il concetto di concorso, se non si apre alla possibilità che le strutture decentrate possano assumere direttamente i soggetti che a loro effettivamente occorrono con la semplice comparazione dei curricula, se non si aprono interi mondi professionali (penso a quello della Scuola che è veramente un mondo bloccato) se non si smette di piegare le esigenze vere della società a quelle delle istituzioni e ad un bisogno forsennato di dare lavoro a chiunque comunque, noi saremo in grado di creare solo precariato scadente in grado di fornire servizi o prodotti scadenti e non nuovi posti effettivi di lavoro. Occorre premiare il merito e la capacità dei singoli e dare maggiore libertà di movimento autonomo alle strutture, pubbliche o private che siano. Occorrono effettive autonomie basate su principi e valori che oggi praticamente hanno cittadinanza nella società reale ma non in quella istituzionale. All’interno di questa logica aperta avrebbe ancor più valore un patto sociale quale quello posto nello Statuto dei lavoratori, se in difesa di diritti non astratti ma soggettivi.
Consentitemi ora un’ultima provocazione restando in tema di lavoro. Il titolo di questo incontro (Difficile ma liberale) mi ha fortemente intrigato e stimolato a proporvi una valutazione verso una ipotesi di riforma, che definirei sostanzialmente di costume, ma che ritenere “difficile” è riduttivo, e che riguarda un tema di grande attualità ed importanza: quello del mercato del lavoro.
Alcuni indicatori decisamente significativi rappresentano l’esistenza in Italia di certe strane realtà sociali, culturali e di costume. Una per tutte: nel nord, almeno un paio di milioni di lavoratori iscritti alla CGIL votano Lega. Questo è un chiaro segnale di “confusione” di ruoli e di contenuti culturali e politici che induce ad esaminare meglio la questione.
In quest’ambito dovrebbero operare tre protagonisti: gli imprenditori, i lavoratori dipendenti, lo Stato. I ruoli sarebbero facilmente identificabili se correttamente operanti.
- Gli imprenditori gestiscono l’azienda al fine di ricavarne profitto;
- I lavoratori, organizzati in Sindacati, tendono a garantirsi condizioni di salario sufficienti e giuste;
- Lo Stato, attraverso il Governo centrale o quelli regionali e locali, svolge un ruolo di mediazione tra le posizioni per favorire gli accordi, garantendo i rispettivi diritti.
In realtà, allo scadimento sempre più accentuato della politica e dei “rapporti” tra le parti (specchio di una decadenza generalizzata dei valori), è seguita una assolutamente malintesa concezione della pratica della “concertazione” che appare a me essere più vicina al concetto di “collusione”.
Oltre all’accennata decadenza dei valori e delle capacità politiche, un fattore ha soprattutto contribuito e falsato completamente, a mio avviso, questo mercato: l’ideologizzazione dei sindacati figlia del quarantennio di contrapposizione DC PCI e della mancata personificazione dei sindacati, pur prevista nella Costituzione.
Questa ha prodotto tre elementi:
- Il fatto che i sindacati siano tanti quanti sono i partiti e, sostanzialmente, ne siano sempre più l’interfaccia, essendo serviti gli uni agli altri per scopi del tutto diversi da quelli propri. Sono divenuti da un lato sacche di privilegi e di “scorciatoie” carrieriste e dall’altro strumento di controllo dei voti;
- Il fatto che, di conseguenza, le politiche economiche dei Governi (che sono espressione di quegli stessi partiti che in qualche modo controllano i sindacati o, in qualche caso, finiscono per l’esserne più o meno controllati) sovrastano e portano a completa deviazione l’azione di chi dovrebbe difendere i lavoratori “sindacando”, contrastandole, le intenzioni delle altre due parti;
- Il fatto che, perciò, i sindacati abbiano finito per appiattirsi sulle posizioni del governo di turno e che si occupino oggi, sostanzialmente, più di politiche e strategie economiche, che non competono loro, che non di politiche salariali e, tutt’al più, industriali.
Insomma, v’è stata una completa abdicazione del Sindacato al proprio ruolo. Un esempio eclatante l’abbiamo avuto 14 anni fa, e ne stiamo ancora pagando le conseguenze. Al momento dell’ingresso nell’Euro la totale liberalizzazione, volutamente incontrollata, del mercato dei prezzi, che iniziò proprio con l’aumento delle tariffe pubbliche (ferrovie, autostrade, luce, gas, benzina, ecc.), ha portato, nel giro di un anno, al dimezzamento del potere d’acquisto delle famiglie a reddito fisso che costituivano, allora, la maggior parte della cosiddetta media borghesia.
Ebbene le voci che si levarono dai sindacati, abilmente spaccati dalla maggioranza di allora, furono praticamente inesistenti e disarticolate. Assolutamente nulle. Segno evidente di una debolezza strutturale del sindacato o dell’esistenza di un sostanziale, e scellerato, accordo o se non di un accordo di una sostanziale condivisione della visione politico economica del governo del momento. E non mi si venga a dire che ciò è frutto delle politiche necessariamente imposte dall’Europa perché allora c’è da domandarsi il motivo per il quale ciò non sia avvenuto in altre nazioni europee.
Sostanzialmente andrebbero completamente rivista la natura dei sindacati per restituire loro il giusto ruolo di “componente dialettica” ed andrebbe presa in esame la possibilità di renderli “diversi” (persone giuridiche?), comunque più funzionali alle moderne esigenze sia del mercato del lavoro che delle aziende. Tutti ne trarrebbero un ritrovato e rinnovato ruolo.
In conclusione:
– l’ambiente, complessivamente inteso, come prima fonte di investimento strutturale ed infrastrutturale, di salvaguardia della salute morale e materiale dell’uomo e di promozione delle sue esigenze assistenziali, sociali e relazionali;
– una nuova e più agile organizzazione delle istituzioni di Sanità e di Assistenza sociale, aggiungo, con un pieno e serio coinvolgimento del cosiddetto terzo Settore;
– un complessivo riesame concettuale e valoriale dell’organizzazione del lavoro improntata sul principio del merito e della scelta autonome e decentrate sia da parte del lavoratore che del datore di lavoro, pubblico o privato che sia;
– un recupero nella società di logiche di correttezza valoriale e dialettica e vicendevole controllo tra le formazioni sociali, soprattutto di quelle con poteri di rappresentanza, ripulendo queste dalle incrostazioni ideologizzanti e riportando ciascuna alla gestione di ambiti funzionali propri.
Direi estremamente difficile ma assolutamente liberale.
Roma, 3 luglio 2014 – Convegno “Difficile, ma liberale”