Riforma elettorale verso il traguardo

Dopo molti mesi di trattative, la riforma elettorale al Senato ha fatto un passo avanti. La Commissione Affari Costituzionali, sia pure a maggioranza, ha approvato un testo, che nei prossimi giorni verrà sottoposto al giudizio dell’Aula. In effetti sembrerebbe che, al di là di alcuni punti ancora controversi, l’accordo sia abbastanza generale, in quanto i partiti rappresentati in Parlamento hanno cercato di ritrovarsi in un testo in grado di cautelare al massimo il loro interesse alla sopravvivenza, nonostante l’enorme ondata di malcontento che sovente si è trasformata in rifiuto da parte degli elettori.

Dal punto di vista liberale le maggiori critiche all’attuale formulazione della legge, si possono riassumere in tre punti principali.

Per antica e radicata tradizione democratica, siamo in genere contrari alla assegnazione di qualsivoglia premio di maggioranza. Tuttavia esso troverebbe la sua giustificazione esclusivamente se assegnato ad una forza politica (singola o coalizzata) che arrivasse molto vicino alla maggioranza assoluta per garantirle la possibilità di governare.

Non ha alcun senso invece prevedere, come nel testo appena approvato, l’assegnazione di un 12,5% di seggi in più a chi, magari avendo battuto in termini relativi gli altri, avesse raggiunto appena il 25% dei voti e che, quindi,  anche col premio, non dovesse risultare in grado di contare su una maggioranza parlamentare.

Abbiamo sempre condiviso l’impeccabile esercizio del proprio ruolo da parte del Capo dello Stato ed anche i suoi ripetuti inviti al  Parlamento di provvedere a cambiare una legge elettorale che 1.210.000 cittadini avevano chiesto di cancellare. Tuttavia non esitiamo ad affermare che il suo intervento nel merito della legge in discussione al Senato, ci è sembrato inopportuno. Innanzi tutto è apparso come un endorsement a favore del PD, anche se certamente questo non era nelle sue intenzioni. Noi dissentiamo sul merito del messaggio presidenziale, che paventa il rischio di incoraggiare coalizioni eterogenee. Infatti questa non è materia di competenza del Presidente della Repubblica, ma responsabilità esclusiva del Parlamento. Diversa cosa sarebbe un pronunciamento contro qualunque forma di premio di maggioranza, invocando il rispetto delle norme costituzionali. Tuttavia un tale rilievo non doveva essere effettuato informalmente durante l’iter di approvazione della legge, ma, come prevedono le sue prerogative costituzionali, prima di firmare il testo definitivo, rimandando il provvedimento legislativo alle Camere.

Il secondo punto di dissenso, questa volta più radicale, riguarda le soglie di sbarramento, indicate nel 5% per le liste singole e nel 4% per quelle che fanno parte di una coalizione. Innanzi tutto non si capisce il senso di una tale disparità, già presente nel porcellum, come se chi non ha voluto allearsi, abbia meno diritto di rappresentare i propri elettori, rispetto a chi ha stipulato un’alleanza.

In secondo luogo, pur condividendo la opportunità di scoraggiare una eccessiva frammentazione, in una fase in cui la geografia politica sta così rapidamente cambiando per il disastroso spettacolo offerto dai partiti di plastica della Seconda Repubblica, soglie di sbarramento troppo elevate, finirebbero col mortificare il processo di cambiamento in corso, che, per evidenti ragioni temporali e di insufficiente visibilità mediatica, penalizzerebbero soggetti, come il PLI, finalmente in lenta ma decisiva crescita.

Basterebbe riflettere che il cinque per cento significa oltre due milioni e mezzo di elettori per rendersi conto che cancellare di fatto il voto di masse così grandi di cittadini, sarebbe un tragico errore. Attualmente, per esempio,  la sinistra estrema non raggiunge certamente tale percentuale. Escluderla dalla rappresentanza significherebbe riversare tutta la sua carica antagonista, a volte violenta, soltanto nelle piazze, mentre una, sia pur modesta, presenza parlamentare, potrebbe garantire pacificamente la espressione in sede istituzionale delle relative pulsioni.

L’obiettivo di maggioranze omogenee, come era nell’Italia liberale di Cavour, potrebbe essere garantito da un sistema fondato su collegi uninominali, che assicurerebbe alle forze maggiori un numero prevalente di eletti. Allo stesso tempo, come prevede il testo in discussione al Senato, riservare un terzo dei seggi proporzionalmente alle forze politiche, ridimensionerebbe automaticamente quelle minori, che otterrebbero i propri parlamentari quasi esclusivamente su tale quota, ma consentirebbe il diritto di tribuna a tutti. Eventualmente si potrebbe prevedere uno sbarramento al 2% per evitare eccessive frammentazioni. Infatti un partitodel 3% con circa un milione e mezzo di voti, senza concentrazioni particolari in una singola zona, otterrebbe soltanto il tre per cento di un terzo dei seggi, quindi solo sei o sette rappresentanti, per dar voce a quella parte di Paese, la cui opinione in tal modo non verrebbe esclusa, assicurando il pluralismo.

La terza ed ultima osservazione riguarda il voto di preferenza. Pur venendo, come più  sopra ricordato, da una tradizione incline a preferire i collegi uninominali, non abbiamo mai avuto una preconcetta contrarietà ai sistemi proporzionali ed alle relative preferenze. Tuttavia non possiamo far finta di non aver visto quanto è avvenuto in Italia nell’ultimo trentennio, cioè nell’ultima fase della Prima e nell’intero corso della Seconda Repubblica. Per tale ragione abbiamo con convinzione contribuito alla raccolta delle firme per il ritorno al Mattarellum, che prevedeva i collegi uninominali, insieme ad una modesta quota di proporzionale.

Le campagne elettorali sono diventate sempre più opulente e dispendiose, il fenomeno del voto di scambio si è esteso a dismisura, l’interferenza delle mafie ha raggiunto livelli patologici. Mentre quindi si sta faticosamente cercando di bonificare la società da tali forme abnormi di corruzione elettorale e politica, reintrodurre il voto di preferenza sarebbe semplicemente errato. Non hanno senso le annunciate regole sulla limitazione delle spese, perché potrebbero facilmente essere aggirate e non risolverebbero il problema dell’uso scorretto dei poteri pubblici, come non servirebbero a scoraggiare patti scellerati con la delinquenza organizzata.

Non siamo in grado di prevedere cosa avverrà nei prossimi giorni nell’Aula del Senato, ma soprattutto, non abbiamo idea dello stravolgimento del testo che potrà derivare dal successivo passaggio nella Corea della Camera. Non sappiamo quindi se in qualche modo si riuscirà a farela riforma. Perparte nostra siamo consapevoli che i morenti partiti, attualmente maggioritari nelle Camere, cercheranno di far  di tutto per garantirsi una sopravvivenza, a scapito di chi, come noi, grazie ad una critica coerente durata quasi un ventennio, oggi, potrebbe ottenere il consenso che gli compete per le idee ed i valori di cui si fa portatore.

Il difficile cammino dei prossimi mesi, ci impone, quindi, non soltanto di moltiplicare i nostri sforzi per irrobustire e radicare maggiormente nel territorio il nostro Partito, ma per ricercare, secondo la preveggente linea approvata dal Congresso Nazionale, tutte le possibili sinergie con le disperse forze liberali esistenti nel Paese. Per raccogliere un consenso che è a portata di mano, dovremo apparire come un credibile punto di riferimento e di attrazione per quei tanti elettori che, frastornati, tendono a rifugiarsi nel non voto o per quegli altri, che, giustamente arrabbiati, potrebbero fare una scelta basata soltanto sul desiderio di punire una classe dirigente, che si è rivelata impresentabile, tanto che il Paese ha dovuto far eccezionale ricorso ad un Governo di tecnici.

Tratto da Rivoluzione Liberale

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