
Raffaele De Caro: uomo del Sud, uno dei padri fondatori del PLI.
Il 3 giugno ricorre il sessantesimo anniversario della morte di Raffaele De Caro e il ricordo va inevitabilmente a quello stesso giorno del 1961, quando il leader del Partito Liberale Italiano morì improvvisamente a Torino, dove era giunto per partecipare alle manifestazioni per il centenario della morte di Cavour e alla Festa della Repubblica che in quell’anno, nella prima capitale del Regno d’Italia, celebrava anche un secolo di unità nazionale.
Nato a Benevento il 29 marzo 1883, bersagliere nella Grande Guerra, avvocato, deputato costituente e più volte ministro, De Caro lascia un segno tangibile tuttora vivo nel ricordo, e che soprattutto appare di straordinaria attualità in un panorama politico da oltre vent’anni caratterizzato dalla fine dei partiti, dalla morte delle ideologie e dalla scomparsa del senso di dovere istituzionale di cui erano pervasi i grandi protagonisti dell’Italia repubblicana.
Quest’Italia, del resto, Raffaele De Caro l’aveva vista nascere dopo aver attraversato con non poche difficoltà – lui antifascista – dapprima il ventennio e poi la delicatissima fase della ricostruzione quando era necessario trovare l’equilibrio tra forze e idee davvero opposte, non certo come oggi dove predominano i personalismi e le ostilità contro gli avversarsi, e all’equilibrio si preferisce il più facile e redditizio accordo, senza mai lottare col pensiero, bensì adeguandosi ai numeri e lavorando soltanto alle più vantaggiose alleanze.
De Caro, per intendersi, era anzitutto il portavoce massimo del pensiero liberale – pensiero che peraltro lo accomunava ai grandi padri del percorso repubblicano come Croce, Einaudi, De Nicola – mentre solo secondariamente – oggi si direbbe nella sfera privata – era il principe del Foro Beneventano, il cittadino sannita di famiglia borghese con una lusinghiera tradizione nella pubblica amministrazione, l’uomo sposato e senza figli ma che aveva saputo costruirsi una grande famiglia tramite l’affetto e la stima dei parenti e dei tantissimi amici e conoscenti.
Nato e vissuto in una piccola realtà rurale come quella beneventana, “don Raffaele” era ovviamente – in linea con i tempi – il punto di riferimento dei propri elettori che a lui ricorrevano per ogni difficoltà, ottenendo quasi sempre quello che in un brutto gergo si definisce un “favore”, mentre invece più giusto sarebbe definirlo un “aiuto”, ovvero quel gesto umano che dovrebbe essere istintivamente connaturato alla politica nell’accezione di raggiungimento del bene comune; un gesto conseguente però solo al reale momento del bisogno, dignitoso e non assistenzialista, e dunque all’opposto di quanto accade attualmente, ovvero con l’elargizione a prescindere dalla necessità, soltanto per costituirsi una salda cerchia di potere animata da un cospicuo movimento e ritorno economico.
È anche per questi slanci che De Caro è rimasto impresso nella memoria collettiva: slanci che tuttavia non appartenevano tanto all’uomo quanto piuttosto alla fede nel proprio ideale, quello liberale, condiviso nel dopoguerra da una discreta ed eterogenea fetta di popolazione che in esso si riconosceva maggiormente rispetto ad altri. Erano del resto i tempi in cui tutti – i comunisti, i democristiani, i socialdemocratici, i repubblicani e persino i missini e i monarchici – non studiavano nelle sedi di partito il sistema per andare al governo ad ogni costo, bensì erano tra la gente per conquistarne la fiducia con le idee, con i programmi e con una fede pienamente incarnata nei loro massimi esponenti: De Gasperi, Togliatti, Saragat, La Malfa, Almirante e Covelli sono infatti nomi che ancora oggi, a prescindere dal pensiero di ciascuno, rievocano passione, coerenza, impegno, rispetto reciproco, e De Caro era uno di loro, dapprima come combattente al fronte, poi come teorico del pensiero liberale e infine per quasi un quindicennio come Presidente del Pli, subentrando nel 1947 a Benedetto Croce.
La politica dei suoi anni, insomma, fu sinonimo di doveri e di responsabilità nei confronti della Patria e degli elettori (i quali raramente cambiavano idea) e mai fu considerata un diritto o peggio ancora uno strumento di lotta e di protesta.
La politica, allora, era uno strumento per costruire, e in essa la diversità significava libertà.
Libertà di pensiero, che veniva vicendevolmente rispettata come un fondamento primario della Costituzione e che dunque non poteva conoscere derive come ai nostri tempi, in un clima di serrata lotta non ideologica (che pure sarebbe tollerabile), quanto piuttosto personale. Erano gli anni in cui i democristiani si opponevano, e anche duramente, ai comunisti, ma giammai De Gasperi avrebbe intrapreso una guerra contro Togliatti, e viceversa.
Con questo spirito Raffaele De Caro fece parte dell’Assemblea Costituente e poi, nei primi quindici anni di vita repubblicana, si impegnò costantemente nella complessa e laboriosa ricostruzione di uno Stato democratico dalla macerie del regime e della guerra e – al di là dei brevi mandati come ministro del Lavori Pubblici nel Governo Badoglio e per i Rapporti con il Parlamento nel Governo Scelba, lo fece unicamente con la forza delle idee liberali.
Di uomini come lui è oggi fondamentale richiamarne dunque soprattutto gli ideali – che non a caso sopravvivono nel suo glorioso e ancora vivo Pli – mentre sarebbe vano tentare un paragone con i politici d’oggi, perché se i leader come De Caro sono degnamente entrati a far parte della storia, purtroppo non sono più considerati esempio da seguire o a cui ispirarsi.
L’indimenticato liberale sannita, infatti, muore quando sta quasi per chiudersi per sempre l’epoca dell’impegno istituzionale disinteressato e fattivo, mentre si profila all’orizzonte una nuova era in cui agli slanci e agli entusiasmi si andranno a sostituire inesorabilmente i giochi di potere, i protagonismi, le tattiche e le alleanze in chiave elettorale.
La politica italiana di oggi non può dunque far altro che guardare a De Caro e ai grandi della sua epoca – nel caso in cui li conosca o casomai ancora li ricordi – come a veri servitori dello Stato, appartenuti ad un tempo lontano e destinati a non avere degni eredi. Lo impedirebbe, infatti, l’attuale contesto del tutto simile a quello di una tifoseria calcistica (e anzi anche peggio perché nel calcio almeno la fede resta incrollabile), in cui l’impegno e la partecipazione dei cittadini è appagato dal parteggiare per Grillo o per Conte, per Renzi o per Letta, e dove persino i leader, anziché stimolare la formazione e la crescita di una coscienza civile e politica, incoraggiano la più facile strategia della lotta contro un avversario da abbattere. Un avversario che vent’anni fa si chiamava Berlusconi e oggi Salvini-Meloni, spostando in tal caso il mirino in base ai pronostici dei sondaggi.
In questo contesto un gigante del pensiero come Raffaele De Caro – che non ebbe avversari ma antagonisti di idee – si sentirebbe non solo a disagio, ma del tutto fuori luogo, e senza dubbio si stupirebbe di come, nei sessant’anni successivi alla sua morte, i valori abbiamo potuto cedere tanto facilmente il passo alla corruzione e alla malapolitica. Ma ancor più si meraviglierebbe di come proprio i partiti e i loro capi siano riusciti a suscitare un così grande sentimento di disaffezione alla politica stessa, la quale a sua volta ne ha cavalcato la degenerazione fino a determinare quell’allontanamento di massa che un efficace neologismo ha definito antipolitica.
È poi triste storia dei nostri giorni quella del ritorno dell’antipolitica sui suoi passi, scanditi da incoerenza e convenienze nel tentativo di ricostruire i partiti com’erano, privi però di un fondamento ideologico. Ma questa non potrebbe essere la storia di Raffaele De Caro che – con una degna carriera da soldato, avvocato e alto rappresentante delle istituzioni – fu un autorevole punto di riferimento della sua epoca entrando poi di diritto nella storia per essersi cimentato con entusiasmo in ogni battaglia, senza l’egoistico interesse a vincerla ma già ampiamente appagato dal poterla combattere con dignità.
Per le giovani generazioni che si affacciano alla vita politica, la speranza è che questo ricordo di un grande liberale dia loro un modello da emulare per la fede nelle idee, animata dalla franchezza e dalla disinteressata disponibilità quali armi umili ma tuttora validissime per ricostruire un’Italia politicamente migliore.
Un’Italia ancora libera e democratica che, se oggi può almeno essere orgogliosa del proprio passato, lo deve per buona parte anche a Raffaele De Caro.
articolo del giornalista Andrea Jelardi