Produrre, non inseguire il consenso
Le decisioni del vertice di Bruxelles, al di là del contenuto, pure molto importante, assumono grande rilievo per il segno di discontinuità che esse rappresentano, rispetto ad un opaco passato, fatto di egoismi e manifesta incapacità di compiere scelte politiche di grande respiro.
Il fenomeno, che ha determinato negli ultimi anni la prevalenza degli interessi nazionali nel campo dell’Unione Europea e dell’Eurogruppo, è analogo a quello che si è prodotto nei singoli Stati con il contrasto tra le diverse corporazioni, impegnate a difendere anacronistici privilegi. La causa di tale degrado dipende dal tramonto della politica, dopo la fine dei cosiddetti partiti ideologici e la scomparsa dei grandi leader.
Una trasformazione epocale, mai realizzata pacificamente nella storia del mondo, come l’Unione tra i diversi Stati dell’Europa, che impone cessioni importanti di sovranità, postulerebbe l’esigenza di grandi passioni ideali, che soltanto partiti motivati da un solido bagaglio culturale e valoriale sarebbero in grado di esprimere, affidandone la declinazione a personalità di elevato spessore.
Alla fine della seconda guerra mondiale, pur tra le macerie ed i veleni seguiti al conflitto peggiore della storia dell’umanità – con i connessi problemi della ricostruzione materiale e morale dell’Europa devastata – uomini come Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak, Martino, seppero avviare il grande disegno lungimirante di Unione, prefigurato soltanto negli arditi progetti di intellettuali del calibrodi GiuseppeMazzini o Altiero Spinelli.
Finché il nostro continente è stato in grado di esprimere leadership della statura di Mitterrand, Kohl, Giscard d’Estaing, Craxi, Andreotti, Blair, il progetto di Unione ha registrato notevoli successi, fino al trattato di Maastricht, anche se non senza difficoltà. Dopo, ha subito una brusca battuta d’arresto, come capita sempre quando la politica si impoverisce culturalmente. Non riuscendo ad appassionare, non è in grado di attirare le migliori energie, che dovrebbero esprimere le personalità carismatiche.
Il fenomeno ha interessato nell’ultimo ventennio sia il piano internazionale, che quello delle singole nazioni. Così è avvenuto che, al recente vertice europeo, la personalità di maggior spicco si è rivelata il non politico Mario Monti, il quale, con garbata fermezza, ha saputo imporre non le ragioni dell’Italia, ma quelle della politica.
Nel nostro Paese, la scomparsa delle storiche formazioni politiche, capaci di concepire progetti di lungo termine, ha dato luogo al predominio degli interessi organizzati di sindacati, corporazioni, consorterie, gruppi di interesse parassitario, rispetto ad una debole politica, che ha abdicato alla funzione di guida, per perseguire obiettivi di mero potere. Si è così esasperato lo scontro tra gruppi sociali contrapposti, per trarne vantaggio: da una parte il mondo del lavoro dipendente, ancorato alla difesa dei privilegi conquistati negli anni settanta, dall’altro quello della piccola e media impresa, esposto al mercato e che ha cercato di difendersi, attraverso la richiesta di sussidi e la evasione fiscale.
La Seconda Repubblica è fallita di fronte alla incapacità di elaborare e realizzare un progetto che, riconciliando i contrasti tra i due blocchi, consentisse al Paese di entrare nella modernità, attraverso la eliminazione di privilegi anacronistici, di rendite parassitarie, di tutele insostenibili, di arretratezza tecnologica, di diffusa illegalità.
Dobbiamo rapidamente recuperare questo deficit di politica che ha diviso i Paesi dell’Unione e spaccato al proprio interno l’Italia, condannandola ad una perifericità che, come ha dimostrato Monti, non meritiamo.
Al pari di quanto è avvenuto al vertice di Bruxelles, la politica deve in primo luogo riassumere il primato rispetto alla speculazione finanziaria, poiché ha tutti gli strumenti per piegarla.
Ai provvedimenti assunti recentemente dall’UE, devono seguire analoghe decisioni della Comunità internazionale, indicendo una nuova Bretton Woods, che ridisegni le regole del mercato e stabilisca in particolare rigide condizioni per quello dei capitali, assicurandosi che questi ultimi siano tali e non mere invenzioni cartacee.
La prima necessità è che si palesino nuove leadership prestigiose, invertendo quel processo che si è andato sviluppando negli ultimi decenni, secondo cui la politica, anziché guidare le masse, come è sempre stato in passato, di fatto, ha finito col seguirne gli umori. Se in precedenza, i grandi partiti ideologici raccoglievano il consenso sulla base delle suggestioni offerte dalla utopia che essi predicavano, oggi le proposte dei nuovi partiti di plastica, con leader di cartapesta, vengono costruite sulla base dei risultati dei sondaggi, con l’effetto che essi durano quanto i loro fotogenici capi e si sciolgono alla prima pioggia, la quale trasforma tali presunti leader in maschere tragiche di un carnevale rovinato dal maltempo.
Thomas L. Friedman sul New York Times nei giorni scorsi ricordava il successo della cosiddetta legge di Moore, (Gordon Moore, cofondatore della Intel) secondo la quale, la potenza dei microprocessori sarebbe raddoppiata ogni 12 – 24 mesi, come in effetti è avvenuto. L’articolo tuttavia sottolineava che nessuno fu un grado di prevedere che essa avrebbe portato, come corollario, che la qualità delle leadership politiche sarebbe diminuita ogni cento milioni di nuovi utenti di Facebook o di Twiter.
In nome del principio, in sé giusto, di ascoltare più voci e di assicurare maggiore partecipazione, in realtà, una politica senza linee guida proprie, ma condizionata soltanto dai sondaggi, ha finito col portare la società non dove avrebbe dovuto andare, ma dove gli umori prevalenti l’hanno trascinata.
Essa ha perso quindi la sua più importante caratteristica, quella di scegliere e di decidere, divenendo inadatta ad esercitare un’azione di traino.
Abbiamo pertanto registrato una assoluta incapacità di assumere decisioni, anche impopolari, ma ragionevoli e coraggiose, preferendo sempre la comoda strada di assecondare le pulsioni, spesso insensate, dei gruppi sociali di riferimento dei partiti dominanti e finendo col soccombere ad un populismo corporativo e talvolta, come nel caso delle linee dettate dalla Lega, disgregante ed antinazionale.
Il deficit attuale, che ha determinato il declino della politica, sia in Italia che in Europa e nel Mondo, non è quindi mera crisi di leadership, ma l’effetto della mancanza di coraggio nel perseguire progetti secondo precise visioni contrapposte e coerenti. Si è preferito scegliere la via più facile, ma devastante, del baratto della verità e della orgogliosa difesa dei propri valori indentitari, con una spasmodica ricerca del consenso, per ottenere una sorta di delega in bianco alla gestione del potere.
Che nasca dalla protesta, cogliendo gli umori della pancia di una società resa insofferente dalle difficoltà, o da un continuo inseguimento dei risultati dei sondaggi, si tratta sempre e soltanto di antipolitica, mentre un Mondo in cui altri (la finanza speculativa) hanno preso il sopravvento, avrebbe bisogno del ritorno in campo della Politica, quella di sempre, fatta di valori, cultura, identità, idee, etica pubblica, che per troppo tempo è stata sfrattata e di cui si comincia ad avvertire l’urgente bisogno.
Tratto da Rivoluzione Liberale