Perché difendiamo la Spending review

Abbiamo dato il nostro pieno e convinto sostegno al Decreto del Governo sulla cosiddetta Spending review, che avremmo preferito si chiamasse, più comprensibilmente, “riduzione della spesa pubblica”. Soltanto la urgente ed ineludibile necessità, collegata ad una Crisi economica senza precedenti, ha imposto (ed imporrà ancora, perché siamo solo all’inizio) quello che i liberali chiedono da sempre: meno ingerenza statale, meno sprechi, più concorrenza, maggiore responsabilità della Pubblica Amministrazione e degli stessi cittadini.

In un Paese a prevalenza democristiana, socialista e comunista, in passato, è stato impossibile introdurre le regole elementari di un sano liberalismo, nemico degli apparati burocratici e ostile alle spese clientelari, spesso invece contrabbandate come di alto valore sociale.

Anche oggi, pur di fronte alle difficoltà di un debito pubblico doppio rispetto a quanto previsto nei trattati europei e ad una speculazione finanziaria che ne approfitta, perché ha individuato nell’Italia una delle aree più fragili dell’Eurozona, le resistenze sono state e saranno ancora enormi. Anche nel recente Decreto Legge alcuni interventi sono palesemente e contraddittoriamente dimezzati, come quello che riguarda le Province: non  ha senso eliminarne solo la metà. Il problema vero non è la scarsa funzionalità di quelle piccole, ma l’inutilità dell’Ente in sé, che avrebbe dovuto essere abolito subito dopo la istituzione delle Regioni a Statuto Ordinario. Il grande oppositore di tale riforma, Giovanni Malagodi, (non perché fosse un veggente, ma perché conosceva bene i vizi degli italiani) non credette alla promessa soppressione e i fatti hanno dimostrato che aveva ragione. Oggi dimezzarle costringerà livornesi e pisani a fare riferimento alla stesso Ente provinciale, con scontri campanilistici, che si preannunciano formidabili. Così sarà più o meno per tutti gli altri accorpamenti. Rispetto all’Italia cavouriana, avendo scelto come Ente intermediola Regione, le Province dovevano e dovrebbero essere eliminate, perché superflue. Punto.

Conseguentemente tutta l’organizzazione statale si sarebbe dovuta adeguare, cominciando dalle Prefetture, (una per ogni Regione, con uffici periferici in relazione alle effettive necessità del territorio) dai Provveditorati agli Studi ed alle Opere Pubbliche, per continuare con le Questure e gli altri uffici periferici dello Stato, come già da anni ha progressivamente fattola Bancad’Italia. In tal modo, non si ci si limiterebbe ad una semplice sforbiciata delle spese, ma ad una riforma strutturale, duratura nel tempo. Sono patetici i piagnistei a sfondo letterario in difesa della specialità delle tradizioni della “Provincia italiana”, che sono altra cosa, rispetto all’Ente. Nulla e nessuno impedirà di esaltare caratteristiche del folclore, della cucina, della cultura, (contadina o marinara che sia) dei singoli territori, anche abolendo la relativa struttura amministrativa, che distingue Ragusa da Siracusa, Alessandria da Asti, Parma da Piacenza, Frosinone da Latina, Brindisi da Taranto. La stessa cosa potrebbe dirsi per quanto concerne la riduzione, in futuro anch’essa necessaria, del numero dei Comuni, con i relativi apparati, dipendenti, assessori, autonomia organizzativa dei servizi. Nelle grandi città sono rimaste le tradizionali feste rionali o le squadre sportive legate a porzioni di territorio, lo stesso potrebbe avvenire accorpando due o più Comuni.

Da oltre un ventennio si parlava di eliminare i Tribunali e le Procure minori, con gli annessi posti dirigenziali, nonché le strutture ospedaliere più piccole. Aver operato in tal senso è solo il primo passo. Bisognerà al più presto riformare profondamente l’impianto del processo civile, eliminando rituali costosi ed inutili ed elevando la competenza per valore, oltre che ampliando quella per materia, dei Giudici di Pace, il cui numero va incrementato. Nel campo sanitario, senza incidere sulla qualità dei servizi al malato e sulla entità delle prestazioni, bisognerebbe sfrattare la politica, eliminando o riducendo ad una per ogni Regione le ASL, i cui vertici non dovrebbero essere nominati discrezionalmente dal mondo politico, ma per pubblici concorsi, così come dovrebbero essere ridotti i posti di primario ed i livelli dirigenziali in genere. Gli Ospedali dovrebbero essere valutati in relazione al loro rendimento, in termini di qualità e quantità di prestazioni, avviando molte attività, a costi inferiori, verso le aziende private, le quali dovrebbero tutte essere convenzionate automaticamente, se le relative strutture e le professionalità di cui si avvalgono, corrispondono ai parametri previsti; quindi eliminando ogni discrezionalità politica.

Ovviamente un capitolo a parte, molto delicato, è quello della riduzione dei dipendenti pubblici ed in particolare dei dirigenti. Il taglio contenuto nel Decreto costituisce solo l’inizio di un processo virtuoso di necessario dimagrimento della pingue e spesso improduttiva burocrazia statale. Tuttavia il passaggio più difficile, ancora più doloroso, sarà quello di far valer la identica logica per Regioni, Comuni ed altri livelli territoriali di amministrazione, comprese le aziende autonome e quelle dei servizi locali, dove, con la complicità della cattiva politica, in questi anni, è esploso il clientelismo, in gran parte affidato al precariato.

Il Governo non ha osato affrontare il nodo delle partecipazioni pubbliche, limitandosi a disporre, solo per alcune aziende, la limitazione del numero degli amministratori. Bisognerebbe invece venderle, senza  preoccuparsi della nazionalità del passaporto dei nuovi azionisti, per abbattere l’enorme debito pubblico accumulato.

Ottima appare la decisione di ridurre del cinquanta per cento le auto blu. Speriamo che non si tratti del solito annuncio. Potremmo continuare, analizzando ogni singola norma ed evidenziando dove si poteva fare di più, molto di più.

Comprendiamo tuttavia che Mario Monti avrà molte difficoltà a far convertire l’attuale Decreto, contro il quale si stanno già mobilitando i soliti difensori della “spesa sociale e dei sacrosanti servizi ai cittadini”, che invece non sono altro che i sostenitori del parassitismo sindacale, burocratico, affaristico, spesso corrotto, che vive e ingrassa attraverso gli sprechi della spesa pubblica allegra. Costoro rappresentano la base di sostegno degli inefficienti partiti rappresentati in Parlamento, verso i quali, dopo l’iniziale distacco, si sta elevando la giusta protesta degli elettori.

Ho letto in questi giorni molti commenti sui tagli decisi con la spending review, ma nessuno ha ricordato che, come per le privatizzazioni e le liberalizzazioni, si tratta di intervanti di politica liberale e che il PLI chiede da sempre, tanto che, se si fosse fatta prima e non limitatamente e soltanto di fronte all’emergenza, non solo avremmo ridotto il debito dello Stato, ma si sarebbe potuto por mano a politiche autenticamente in favore del welfare, come il sostegno ai giovani disoccupati per accompagnare il loro ingresso nel mondo del lavoro, o l’assistenza, non l’elemosina, ai disagiati, ai portatori di handicap, (quelli veri) ed ai terremotati.

Soprattutto lo Stato avrebbe avuto le risorse per avviare la riforma fiscale, che è l’unica via da precorrere per assicurare lo sviluppo dell’economia. Invece la scelta è stata quella del suo inasprimento, fino ad arrivare a livelli di insostenibilità, creando, come abbiamo denunciato più volte, una nuova forma di evasione di necessità. Tutte queste mancate scelte evidenziano la  carenza di rappresentanze politiche degli interessi reali delle categorie disagiate. I partiti, in questi anni, hanno preferito schierarsi dalla parte dei parassiti ben organizzati, piuttosto che occuparsi di coloro che difendono un diritto, perché, una volta conseguito l’obiettivo, proprio perché si tratta di qualcosa che sarebbe dovuta, non imporrebbe una fedeltà duratura, a differenza del privilegio, che, non solo prevede la gratitudine per il riconoscimento, ma per il suo mantenimento nel tempo. Questa è la differenza sostanziale tra lo Stato sociale e quello assistenziale, tra una pubblica amministrazione che dispensa favori ed un’altra che riconosce diritti, in una parola, tra la concezione dell’elettore, inteso come suddito o come cittadino.

Il PLI, di fronte alla liquefazione dei principali partiti ed all’esplosione della protesta, che genererebbe soltanto altra e più perniciosa antipolitica, oltre quella nata nell’ultimo ventennio, deve porsi, nei prossimi mesi, come punto di riferimento per “organizzare i non organizzati”, i figli di nessuno, coloro che pagano in silenzio e non vedono riconosciuto quanto gli sarebbe dovuto, che non sono, come molti ritengono, minoranze, ma la maggioranza, ieri silenziosa e che, giustamente, si sta facendo rumorosa, costituita da coloro che intendono scendere in campo in prima persona, per realizzare una alleanza tra i “primi”, cioè i migliori, il cui merito non viene riconosciuto, e gli “ultimi”, che vedono ignorati i loro diritti ed i loro bisogni. Un progetto per unire finalmente il Sud col Nord, le città con la provincia, i giovani in cerca di un proprio futuro e gli anziani preoccupati per la loro, pur piccola, porzione di futuro, gli imprenditori e coloro che con essi lavorano grazie al gusto del rischio dei primi, gli studenti ed i professori, (non i baroni) che vorrebbero Università  in grado di valorizzare il genio italiano.

Saremo ancora, sempre più spesso, sulle strade per fare tutto questo, che, secondo noi, significa una sola cosa: Politica, anzi politica liberale.

Tratto da Rivoluzione Liberale

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