Monti, l’ultima trincea

Le dimissioni di Mario Monti sono state un atto di grande rispetto istituzionale, che merita ammirazione, sia per la forma, che per il suo significato sostanziale. Dopo oltre ventiquattro ore di silenzio, in cui nulla ha fatto trapelare, con correttezza istituzionale, le ha rassegnate al Capo dello Stato, sorprendendo tutti gli osservatori. Non ha, inoltre, accettato di proseguire, con una maggioranza della non sfiducia, che ne avrebbe alterato gli equilibri politici, modificando il profilo del suo governo, nato come grande coalizione per affrontare l’emergenza.

Il Governo tecnico, in effetti, quando fu varato lo scorso anno, si poneva, oltre  all’obiettivo difficilissimo di evitare all’Italia diprecipitare nel baratro al quale si era pericolosamente avvicinata, anche quello di consentire alle forze politiche una necessaria fase di rigenerazione.

Pur tra contraddizioni, indecisioni e condizionamenti interni (dell’anomala maggioranza che lo sosteneva) ed esterni, (i miopi diktat dell’UE, influenzata dalla Germania) che nessuno può negare, Il Governo ha permesso un significativo riequilibrio dei conti pubblici, ha approvato una riforma previdenziale, che, al netto di alcuno macroscopici errori, tuttavia è andata nella giusta direzione. Ha invece fallito nell’ambizioso progetto di riforma del mercato del lavoro, dove il PD ha fatto prevalere la linea della CGIL, come ha clamorosamente sbagliato sul piano della politica fiscale, dettata dall’Europa, che ha impoverito tutti e prodotto una forte riduzione dei consumi.

Da parte sua, la politica non ha saputo approfittare della tregua costituita dal Governo tecnico per cogliere la richiesta di cambiamento e di nuova visione, che veniva dalla società. In realtà non si può non constatare che il Paese si avvia alle elezioni con lo stesso, identico schema che si sarebbe presentato se si fosse andati alle urne lo scorso anno, senza la parentesi dell’Esecutivo del Presidente: infatti ci troveremo ugualmente con la contrapposizione Bersani– Berlusconi.

Le primarie del PD si sono rivelate nient’altro che un grande happening popolar-mediatico, in cui il continuismo ha prevalso. Nel PDL, dopo un anno intero di proclamate intenzioni rinnovatrici, che avrebbero dovuto dare al partito una struttura democratica e partecipativa, si è tornati allo schema del soggetto carismatico nelle mani del fondatore, per mancanza di personalità forti in grado di assumerne il ruolo. Il Centro per la paura di aver coraggio ed il tatticismo esasperato dei suoi leader, vive un dramma esistenziale, che gli impedisce di proporsi come un’alternativa credibile e vincente,  paralizzato nell’attesa che finalmente arrivi Monti a guidarlo.

Eppure l’intreccio tra crisi politica e crisi economica avrebbe potuto rappresentare un’opportunità per cambiare radicalmente, superando i condizionamenti delle corporazioni e proponendo un programma in grado di colmare il ritardo e recuperare competitività. Si trattava di offrire una speranza ai ceti emergenti, ai giovani disoccupati, alla enorme area sociale del ceto medio, che si è impoverita ed ha subito un declassamento, che ne ha frustrato le motivazioni. La difesa ad oltranza di caste, oligarchie, corporazioni, clientele, minoranze organizzate, parassiti di Stato, sempre più arroganti, hanno esasperato il mondo dei produttori di reddito, sul cui lavoro si regge il Paese. Ancora una volta questi ultimi si sono trovati a dover fronteggiare una pressione fiscale divenuta insostenibile, insieme ai nuovi problemi arrivati con la crisi economica. Il risparmio privato, che finora ha compensato il grande debito pubblico, va esaurendosi per le esigenze della sopravvivenza e per poter affrontare scadenze tributarie, che, principalmente per quanto concerne la parte immobiliare, assumono sempre più un carattere espropriativo. Intanto il relativo mercato è fermo, sia per le compravendite che per gli affitti, in specie per le unità a destinazione commerciale. Le attività industriali, del commercio ed artigiane falliscono in grande quantità, o, per evitare tale disonore, chiudono, lasciando disoccupati, oltre ai titolari delle imprese ed i membri del nucleo familiare, anche i  dipendenti, che non essendo protetti dalle grandi organizzazioni sindacali, precipitano nell’indigenza, senza che nessuno si accorga del loro dramma. I giovani, anziché poter costruire un proprio futuro, restano a carico delle famiglie, spesso gravando sulle pensioni, già impoverite dal caro vita, di genitori e nonni.

Il Governo tecnico non ha avuto la forza di affrontare il problema della burocrazia con i suoi costi diretti (un esercito di fannulloni e signor no, che con protervia esercitano il loro sconfinato potere, spesso corrotto) ed indiretti, (l’alto coso ed il ritardo nell’avvio di attività produttive, che spesso comporta la rinuncia) per evitare lo scontro parlamentare con le forze della conservazione. Le Banche sono state incoraggiate a limitarsi a sottoscrivere certificati del debito pubblico con il denaro fornito all’1% dalla BCE, anziché essere indotte a riaprire coraggiosamente le maglie del credito alle imprese ed alle famiglie, facendo una selezione qualitativa e di merito, anziché limitarsi al vetusto criterio delle garanzie, che non premia le iniziative migliori. Il livello di istruzione si va abbassando ogni giorno, a causa del fenomeno dell’abbandono scolastico, principalmente nei livelli più elevati, per la frustrazione che deriva dalla consapevolezza che ormai il diploma non rappresenta più una speranza di miglioramento per conquistare nuove e migliori opportunità nell’ascensore sociale. In effetti sarebbe stato giusto far venir meno tale illusione, eliminando il valore legale dei titoli di studio, ma, al contempo, si sarebbe dovuto puntare su una elevazione del livello culturale generale, che costituisce una ricchezza e investire su alcune aree di eccellenza.  Tale errore, che ha posto il Paese in fondo alle classifiche mondiali dell’istruzione superiore, rappresenta un impedimento per quel necessario recupero di competitività, che avrebbe dovuto scommettere sulla valorizzare della fantasia degli italiani e  la straordinaria riserva di energie inespresse della nostra popolazione.

Lo scontro elettorale si preannuncia come un’altra ignobile riffa a chi prometterà di più, sapendo di non poter mantenere, ed uno scambio di invettive, riproponendo il penoso schema del bipolarismo all’italiana, pur dopo un fallimentare ventennio di sperimentazione.

Il Centro politico, dovrebbe definitivamente abbandonare l’equivoco della politica dei due forni di democristiana memoria, per porsi come polo radicalmente riformatore, alternativo ai due conservatorismi neostatalisti di sinistra e di destra, con venature autoritarie di quest’ultima, che, su tale terreno, lancia segnali di fumo all’antipolitica accentratrice di Grillo, al fine di utilizzarne la presenza, sicuramente rilevante nel prossimo Parlamento, in chiave antieuropea.

La congiura mediatica, che ha messo il silenziatore sul PLI e le proprie idee, si spiega con la solidarietà dei poteri forti, che si riconoscono nei due conservatorismi, i quali temono la divulgazione di un programma alternativo liberale, che potrebbe offrire una speranza di futuro e risultare appetibile per coloro, giovani, intellettuali, lavoratori autonomi, imprenditori, tecnici, e sono tanti, che vogliono entrare nella modernità, attraverso un programma di radicale rivoluzione liberale.

Se Mario Monti si mettesse alla guida di tale movimento per la libertà, la democrazia ed il cambiamento del Paese in senso liberale, in pochi giorni, potrebbe far significativamente cambiare gli orientamenti elettorali ed esercitare un’attrazione fortissima per recuperare il dissenso di chi tende ad astenersi dal voto o vorrebbe orientarsi verso un inutile e disastroso voto di protesta. Tale decisione porterebbe lo scompiglio nelle due coalizioni di destra e di sinistra, recuperando da un lato gran parte di coloro che, alla ricerca di una speranza di novità, alle primarie del PD, hanno votato per Renzi e dall’altro i tantissimi che, pur non fidandosi di una sinistra statalista e condizionata dalla CGIL e dalla FIOM,  non si sentono per la sesta volta di sostenere un  Berlusconi,  che li ha condotti verso il baratro e che ha perduto ogni credibilità.

Monti ha pochi giorni, anzi poche ore, per decidere. Anche se la sua compagine governativa è risultata inadeguata, gli italiani sono disposti a dargli fiducia, per la serietà, compostezza, fermezza e competenza dimostrate, che hanno riscosso un unanime consenso sul piano internazionale. Se decidesse di farlo, dovrebbe evitare di lasciarsi condizionare dai compromessi dei partiti, tenere lontane le corporazioni organizzate, evitare di coinvolgere i ministri che più hanno deluso, scrivere il programma in solitudine e presentarlo al Paese, chiedendone il consenso. Conoscendo la sua formazione, siamo sicuri che sarebbe un progetto ad alto contenuto liberale e non gli negheremmo il nostro appoggio, a condizione che egli mostrasse la determinazione di realizzarlo senza condizionamenti ed incertezze. Un tale elemento di novità e discontinuità rispetto ad un ventennio da dimenticare,  molto probabilmente, potrebbe ribaltare in poco tempo gli attuali sondaggi,  e conquistare la fiducia degli elettori italiani.

Tratto da Rivoluzione Liberale

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