
Leggi del mercato e giustizia sociale.
Il tema forse più rilevante del confronto politico nel nostro tempo sembra essere quello della presunta contrapposizione tra leggi del mercato e giustizia sociale. Tutti i movimenti di pensiero della sinistra di derivazione socialista o comunista, come della destra nazionalista o iper conservatrice o quelli che s’ispirano alle religioni monoteiste di derivazione orientale, sono sostenitori convinti della necessità di espandere la spesa pubblica per distribuire risorse a chi si trova in stato di indigenza o di inferiore benessere economico, declinando tale linea caritatevole e buonista come ispirata alla giustizia sociale.
Pochi sottolineano che dilatare a dismisura la spesa pubblica comporta o una imposizione fiscale fuori misura, che inevitabilmente finisce col produrre evasione e quindi caduta di gettito, oppure un indebitamento dello Stato fino alla bancarotta.
Anche nelle più opulente società contemporanee il numero dei superricchi che si vorrebbero penalizzare, è enormemente inferiore a quello degli indigenti. Quindi, indipendentemente dalla considerazione che superato un determinato livello di pressione tributaria (la cosiddetta curva di Laffer), il ceto più abbiente sposterebbe facilmente i propri redditi nei paradisi fiscali più di quanto non lo faccia già, in ogni caso, per la evidente sproporzione numerica la invocata redistribuzione non determinerebbe a favore dei meno fortunati che un infinitesimale beneficio.
In effetti, dietro le insistenti richieste di una presunta maggiore giustizia sociale, si celano nostalgie pauperiste di una società di stampo tribale, volte ad una “decrescita felice” in contraddizione con la legge eterna del progresso. Il problema in effetti non è redistributivo, ma di crescita e non soltanto per la necessità di ampliare la sfera dei consumi.
Infatti, a differenza di quelle basate su un fondamento fideistico o ideologico, che auspicano in pratica il ritorno alle arcaiche società chiuse, le moderne società aperte hanno quale presupposto il progresso, sia economico che culturale, in quanto difficilmente i due profili possono divergere.
Tale processo comporta, oltre che la libertà politica, una maggiore consapevolezza diffusa della necessità di una crescita del livello di benessere dell’intera popolazione. In tal senso l’unico impegno dello Stato, oltre che per la tutela della salute, non può che riguardare l’istruzione e la cultura in generale, perché questa è la via per assicurare la crescita armonica e complessiva di una società moderna, indipendentemente dalla volontà politica della classe dirigente: la mano invisibile di cui parlava, già nel diciottesimo secolo Adamo Smith.
La rivoluzione culturale, come portato delle moderne democrazie liberali, ha attraversato trasversalmente le società contemporanee del mondo occidentale, determinando una, sia pure lenta, ma profonda trasformazione sociale, che consiste nella consapevolezza da parte di un numero sempre maggiore di individui che la crescita del livello d’istruzione determina una evoluzione automatica degli equilibri all’interno della società.
Tale risultato è l’effetto della realizzazione nella realtà di quanto previsto dall’intuizione popperiana che l’aspirazione dell’uomo moderno è quella di raggiungere uno stadio in cui esista soltanto un’unica classe, sconfiggendo la teoria della lotta di classe di Marx.
Tutto questo è stato sviluppato negli studi del genio austriaco di Friederik von Hayek, probabilmente il più grande pensatore liberale del novecento sul piano filosofico ed economico, insignito nel 1974 del premio Nobel per l’economia, trasferitosi a Londra e divenuto cittadino britannico, in seguito alla annessione nel 1931 del proprio Paese al Terzo Reich.
Per i tipi di Marsilio sull’argomento, è uscito un saggio brillante e di facile lettura di Alberto Mingardi, direttore scientifico del prestigioso Istituto Bruno Leoni, dal titolo “Contro la tribù. Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna.”
La tesi accattivante è che tali sentieri si formano nel tempo col passaggio degli uomini e che altrettanto la complessa economia di mercato degli Stati moderni, per la sua endemica natura, ha generato ricchezza maggiore di qualunque società del passato.
Mingardi definisce forme di distopia, cioè di utopia negativa, le numerose, “generose” perorazioni in favore della giustizia sociale, che nascondono invece pulsioni e nostalgie autoritarie, attraverso una ricerca del consenso fondata sullo scambio, anziché sulla libera ed armonica crescita della società fondata sull’economia di mercato, la quale, ponendosi come obiettivo principale la crescita economica complessiva, eleva il benessere intellettuale e materiale di tutta la popolazione.
Terminata l’attuale orgia in direzione di una spesa pubblica incontrollata e di una pericolosa corsa verso l’indebitamento, motivata in apparenza dai problemi posti dalla pandemia, ma che corrisponde ad una visione coerente con quanto da sempre sostenuto dai Cinque Stelle, cui si è accodato un PD che ormai insegue soltanto obiettivi di potere, si porrà il gigantesco problema di riprendere il difficile cammino verso il risanamento dello stratosferico debito pubblico e la crescita economica.
Secondo una visione liberale, la strada obbligata da percorrere è quella della concorrenza di mercato e della valorizzazione culturale di un Paese, che ne avrebbe le potenzialità, ma che da quasi un quarto di secolo, è di fatto nelle mani di nessuno.