Le ragioni del nostro pessimismo, di Stefano de Luca

Apparteniamo ad una generazione che dovrebbe vergognarsi nei confronti dei propri figli dell’esempio che offre quale classe dirigente. Basta leggere i principali titoli sulla stampa quotidiana per rendersi conto che è stata vanificata ogni vocazione ideale, che dai nostri cuori e dalle nostre menti è stata sfrattata l’utopia, che abbiamo rinunciato a perseguire le regole morali che ci erano state tramandate. Contano soltanto il potere, la furbizia, il successo, il denaro. Il modello di vita dominante è il grande fratello o l’Isola dei famosi.  Il sogno di ogni ragazza è di diventare velina, di ogni ragazzo di fare il disk jokey. Conta il successo, non il valore, la ricchezza non il sapere. La scuola e l’università sono intesi come diplomifici, la militanza nei partiti  come occasione per fare carriera più facilmente, ricevere favori e privilegi, o, quanto meno, per ottenere un posto da precario. Nonostante la crisi economica abbia colpito duramente anche il nostro Paese, nessuno rinuncia all’ideale della società opulenta, consumistica, superficiale ed opportunistica, che i media ci propinano in dosi massicce. La polemica politica è diventata scambio di accuse e di insulti, quando non è semplice gossip tra protagonisti in perenne conflitto con la lingua italiana.

Corona ha finito col diventare un modello positivo, con la complicità dei media, perché i suoi eccessi fanno notizia, quindi audience e tiratura. La RAI, che veniva definita la più grande industria culturale del Paese, produce “Ballando con le Stelle”, “I raccomandati”, “L’Isola dei Famosi”, tre partite di calcio la settimana, quattro o cinque programmi di approfondimento calcistico, nonchè, per mantenere il livello qualitativo, “Porta a Porta”, “Anno zero”, “Ballarò” e, per accontentare la Lega, l’altro patetico tolk schow di Paragone, che pochi sanno come si chiami. Dalla concorrenza privata, che ha contribuito in modo determinante a ridurre a tale livello la TV di Stato, non ci si può aspettare di meglio, perché ha come unico orizzonte il profitto. Pertanto i relativi palinsesti sono costruiti sulla stesa falsa riga, con analoghe produzioni e modesti telefilms stranieri, acquistati a prezzi di svendita, anche se, come abbiamo appreso, dopo alcuni passaggi attraverso intermediari internazionali, il loro costo a bilancio diventa molto più elevato.

I titoli dei giornali sono sempre più gridati e spudoratamente di parte. Servono per insultare, per infangare, per delegittimare, non per informare, per esprimere opinioni, per suscitare interesse o per avviare dibattiti. Vengono usati come armi improprie per diffamare, attaccare, mettere alla berlina, non soltanto gli avversari, ma sovente anche i settori più scomodi della loro stessa area politica. Anzi, la pratica del fuoco amico si va incrementando perché, avendo rinunciato all’indipendenza, ciascuna testata  sa di potere influenzare soltanto i lettori schierati dalla propria parte. In tale direzione la polemica o la rivelazione scabrosa può fare maggior danno. La professione del giornalista si è ridotta alla amplificazione di notizie provenienti da veline prefabbricate o al killeraggio mediatico. Contro coloro che, come i liberali, non accettano il barbarico sistema dei due forni o delle tifoserie contrapposte, che si avvale della complicità di tutti, viene usata l’arma più terribile: il silenzio, mortale, senza speranza.  Nella società mediatica in cui viviamo, chi non appare, semplicemente  non esiste. Da fastidio persino il web, come unico territorio di libero confronto esistente. Hanno già provato, senza successo, ad imbavagliare tale ultima frontiera di libertà, ma prima o poi troveranno il modo di raggiungere il loro scopo.

Di fronte a tale desolante panorama di scomparsa totale dell’ etica in ogni espressione della vita civile, chi crede ancora nelle regole, nel dovere di rispettare i patti, anche quelli basati solo sulla parola, è un  perdente. Il principio secondo cui bisogna conoscere per giudicare, come quello che il sapere od il valore devono essere il metro per le carriere ed i riconoscimenti, o che l’ingegno e la capacità di sacrificio devono essere il premio per l’imprenditore,  sono stati cancellati, con i risultati che possiamo registrare.  L’ Italia è precipitata nelle classifiche mondiali sulla produttività, in quelle relative alla qualità del servizio giustizia , nonché in quelle che concernono la libertà di informazione . Nessuna delle nostre Università figura nelle classifica delle prime cento mondiali. Per necessità i giovani più dotati del nostro Paese vanno a formarsi negli Atenei americani, se hanno l’ambizione di assicurarsi una carriera brillante. Ma, quel che è peggio, dopo rimangono all’estero.  Anche tra coloro che hanno terminato il corso di studi in Patria, i migliori cercano di specializzarsi con masters in altri Paesi e sovente vi si stabiliscono, depauperando il nostro delle migliori energie intellettuali.

La reiterata invocazione  di una “rivoluzione liberale”, rimane in ascoltata ed ogni volta che ci proclamiamo liberali, ci accorgiamo di un certo fastidio nell’interlocutore, che nella migliore delle ipotesi, si limita ad accusarci di essere legati a qualcosa di superato, dandoci la sensazione che i nostri progetti siano qualcosa di simile alle “prediche inutili” di Luigi Einaudi.

Si tratta di un’ analisi spietata ed intrisa di pessimismo. E’ evidente. Tuttavia nessun progetto di recupero del ruolo che compete al nostro Paese, nel contesto globale nel quale siamo costretti a competere, può prescindere dalla consapevolezza della necessità di un profondo cambiamento culturale, politico, morale, nonché dell’organizzazione dello Stato e dell’economia. A costo di essere accusati di essere nostalgici e conservatori, auspichiamo che possa rifiorire quello spirito costituente e quella volontà di ricostruzione morale e materiale che, negli anni immediatamente successivi alla guerra, consentì il “miracolo italiano”. Non ci rimane che confidare nella capacità di reazione di una nuova generazione che  sappia rifiutare tutto quello che vede attorno e voglia affrontare l’ avventura difficile, ma affascinante,  di cambiarlo radicalmente.

Stefano de Luca


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