Le mancate liberalizzazioni incrementano la crisi

Accade sempre più spesso che molte parole, nell’uso comune, assumano un senso molto diverso da quello originario, che competerebbe loro, sia sotto il profilo strettamente semantico, che sotto quello sostanziale.

A partire dagli anni novanta dello scorso secolo e nel primo decennio dell’attuale, la parola privatizzazione, che avrebbe dovuto rappresentare la trasformazione dalla forma pubblicistica in quella privatistica di Enti,  Aziende o servizi pubblici in attività privatistiche, invece fu interpretata come l’adozione del modello delle società di diritto privato, affidate al semplice controllo da parte dei collegi sindacali, anziché a quello più rigoroso degli organismo di natura pubblica. In tal modo la cattiva politica ottenne il vantaggio di moltiplicare a dismisura il numero di società, nelle quali piazzare, come amministratori e sindaci, proprio personale politico, di solito trombati alle elezioni, portaborse o capi elettori. Nell’impostazione liberale, invece, il nuovo assetto in soggetti di diritto privato delle attività pubbliche, doveva essere l’antecedente necessario per la cessione delle relative attività ai privati, i quali avrebbero dovuto acquistate le aziende, finanziarle con propri capitali di rischio ed organizzarle in modo da poter sostenere la concorrenza ed assicurare agli utenti qualità ed efficienza con costi inferiori.

Invece, nel campo delle aziende pubbliche statali o territoriali, sono emersi numerosi scandali per episodi di corruzione con distribuzione di tangenti da parte di presunti manager posti ai vertici di queste, nonché alla esplosione di contratti di favore a società segnalate dal politico di turno, ad assunzioni di raccomandati, figli, parenti o sostenitori di questo o quel partito. Inoltre, principalmente nel campo delle aziende dei servizi pubblici locali o regionali, si vanno registrando fallimenti o stati di insolvenza a catena, con danno per i creditori, che, trattandosi di società a capitale pubblico, erroneamente, vi avevano riposto maggior fiducia.

Non soltanto sono state disattese le speranze, che erano state riposte nel processo di modernizzazione dell’apparato statale, attraverso lo strumento di una efficiente liberalizzazione di molte attività, ma si è dato luogo ad un’espansione della spesa pubblica al di fuori di ogni controllo e all’ulteriore stagnazione di una economia già indebolita dalla crisi finanziaria prima, e dalla recessione economica dopo, fino a trasformarsi anche in una crisi di fiducia, che ha minato seriamente la necessaria coesione sociale.

Il rapporto annuale di Società libera ha definito il 2012, come l’anno delle privatizzazioni “chiacchierate”, prive di una qualsiasi strategia per l’individuazione di una netta, lineare e comprensibile politica economica. Il sostanziale arresto del processo di liberalizzazione, insieme alla grave recessione di un Paese sostanzialmente fermo, ha rivelato una classe dirigente altrettanto immobile ed incapace di aggredire le rendite parassitarie a carico della spesa pubblica, che avrebbero potuto riavviare meccanismi di dinamicità nel circuito di consumi, produzione, investimenti, occupazione. Il rapporto descrive  “un’Italia che arranca, che non trova la barra, assediata dalla burocrazia, dalla non responsabilità, ostaggio di antichi riti, figli di conservatorismi di rendita”.

In realtà il potere politico, condizionato dalle corporazioni parassitarie, non ha avuto il coraggio di incidere su una spesa pubblica affetta da elefantiasi burocratico -clientelare, perdendo la fiducia dei cittadini, che si sono rifugiati nell’astensione o nel voto di protesta.

Il perverso sodalizio tra uno statalismo, che si esprime sempre più in potere dell’apparato, ed un falso liberismo, che produce privatizzazioni di facciata, limitate alla sola forma societaria, ha soltanto alimentato le clientele di una classe politica inefficiente e priva di senso dello Stato, alleata di una burocrazia onnipotente e di un vetero sindacalismo difensore dei privilegi.

Si dovrebbe invece inaugurare finalmente una stagione di effettive liberalizzazioni, cedendo la proprietà di tutti gli asset pubblici e destinando il ricavato alla riduzione del debito, anziché ricostituire subdolamente una nuova IRI, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, divenuta il centro degli equilibri del nuovo potere politico in economia, unico vero punto di intesa bipartisan tra gli alleati di Governo.

Mediobanca ha calcolato che la sola privatizzazione della RAI, che non svolge alcun servizio pubblico, potrebbe portare oltre due miliardi alla Casse del Tesoro ed alleviare i contribuenti da un canone inutile, che viene avvertito come un vessatorio sopruso fiscale. Il ricavato basterebbe a compensare il mancato introito per il rinvio dell’aumento dell’IVA, senza pretendere l’assurdo ed incostituzionale anticipo a novembre del 110% dell’acconto IRPEF sui presunti, futuri redditi del prossimo anno.

Tratto da Rivoluzione Liberale

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