
L’analisi della situazione attuale dopo la decisione della Consulta di cassare la Fini-Giovanardi
Ci si domanda, da più parti, quali siano, ad un esame non superficiale, le effettive conseguenze della recente sentenza n. 32 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato la incostituzionalità degli artt. 4 bis e 4 vicies ter del DL 272/2005, convertito nella L. 49/2006 (denominata FIN-GIOVANARDI), e ci si interroga se le stesse introducano innovazioni rilevanti e significative nel sistema di governo giuridico della materia degli stupefacenti.
Credo – a titolo estremamente personale – che si debba operare una duplice valutazione.
Sul piano della politica giudiziaria appare indubbio il messaggio di censura all’operato del legislatore, da parte della Consulta.
Vengono biasimate – relativamente alla procedura di adozione dei provvedimenti legislativi – le scelte dell’esecutivo di ricorrere, in primo luogo, allo strumento del decreto legge (attesa l’assenza di una minima ragione di urgenza ed indifferibilità, che costituiscono presupposti necessari per attivare l’istituto di cui all’art. 77 Cost. ), in secondo luogo, di avere stravolto, in modo assolutamente surrettizio, l’originario testo del D.L. 272/2005, attraverso modifiche strutturali che, rispetto allo stesso, appaiono prive di correlazione (si pensi che nel testo definitivo si vennero a prevedere ben 23 articoli, pur a fronte dell’unico originario articolo concepito nel DL in questione) ed, in terzo luogo, di avere occultato un intervento normativo così corposo, all’interno del decreto di rifinanziamento delle olimpiadi del 2006 di Torino.
Per quello che interessa in questa sede, è, dunque, importantissimo rilevare che la declaratoria di incostituzionalità, permette di ripristinare il regime precedente – quello sancito ab origine – proprio della JERVOLINO VASSALLI, il quale prevedeva un duplice, decisivo e distinto trattamento sanzionatorio fra droghe pesanti e droghe leggere.
Per queste ultime, quindi, si perviene ad un’attenuazione delle pene previste, posto che, in tal modo, si ritorna al regime di cui al comma 4° dell’art. 73 dpr 309/90 che prevede una pena da 2 a 6 anni (prima era da 6 a 20) oltre alla multa.
Questo tipo di sanzione può, quindi, essere applicata anche retroattivamente, in quanto più favorevole all’imputato.
Vale, pertanto, a dire che anche per condotte illecite commesse prima delle pronunzia del giudice delle leggi (12 – 25 febbraio 2014 pubblicata in G.U. il 6 marzo 2014), la pena da prendere a parametro, in caso di affermazione di penale responsabilità, è quella ripristinata a seguito della sentenza n. 32.
Si tratta di un indubbio vantaggio per tutti i procedimenti in materia marijuana ed hashish.
Per le droghe pesanti (cocaina, eroina extasy etc.), invece, il discorso appare del tutto differente, in quanto la riviviscenza del regime del dpr 309/90, determina, invero ed all’opposto, un inasprimento della sanzione detentiva che ora prevede un minino di 8 anni di reclusione (in luogo dei 6), fermo il massimo di 20 anni.
In questo caso e per questi motivi, come già affermato con uno recentissimo studio dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, la legge abrogata – che era, quindi, certamente ed indubbiamente più favorevole – continua a produrre effetto sino alle date sopra indicate (quanto meno al 6 marzo 2014 data di pubblicazione).
Quindi, solo per i fatti commessi dopo il 6 marzo 2014, riprende vigenza il più grave trattamento sanzionatorio.
Per quanto concerne, invece, il comma 5° dell’art. 73, norma che governa l’istituto della lieve entità, sono insorti dubbi che sono stati risolti nei termini che andrò a spiegare.
In primo luogo, si deve osservare che questa disposizione è stata modificata, recentemente dall’art. 2 D.L. 146/2013, convertito nella L. 10/2014, che ha modificato l’ipotesi lieve, portandola da circostanza attenuante ad effetto speciale in reato autonomo.
Se, dunque, siamo dinanzi ad una decisione strutturalmente condivisibile, non può, però, sfuggire a critica, la tempistica e le modalità dell’intervento che ha provocato e provoca tuttora una serie di problemi anche di natura costituzionale.
Per tutti, si deve osservare che l’attuale testo del comma 5°, che regola i casi insorti a partire dal 24 dicembre 2013, prevede una unica pena per qualunque sostanza stupefacente, in aperta contraddizione, quindi, con l’intonazione di fondo dell’art. 73, che – invece – distingue inequivocabilmente le sostanze.
Sorge, quindi, per tale elementare ragione, un evidente e profondo dubbio di costituzionalità, che avrebbe potuto essere evitato, solo che il governo LETTA avesse saputo e voluto attendere – per la modifica normativa in questione – la decisione della Corte Costituzionale, evitando di cercare – frettolosamente – facili ed inutili consensi, che hanno, di fatto, solo complicato il quadro legislativo.
Lo stesso Parlamento in ambito di conversione del DL 146/2013 avrebbe potuto intervenire, ma sembra che i nostri deputati e senatori, sempre assai convinti della loro preparazione di base, nello specifico frangente abbiano – invero – mostrato sia la scarsa conoscenza che il loro superficiale approccio allo specifico tema.
Riguardo al comma 5°, in relazione alla conseguenze introdotte dalla sentenza n. 32, si deve osservare che, per quanto attiene alla droghe leggere, vige il discorso fatto in precedenza, in relazione all’ipotesi ordinaria.
Vale a dire che il regime ripristinato, introduce un trattamento di evidente maggiore favore (pena da sei mesi a quattro anni di reclusione, oltre multa), che ha anche operatività retroattiva.
Per le droghe pesanti andranno, invece, effettuate alcune distinzioni.
Si deve, infatti, rilevare che la JERVOLINO-VASSALLI prevedeva anch’essa una pena della reclusione da uno a sei anni (oltre multa), sicchè, da un confronto fra i due testi, si deve concludere che non risulta differenza alcuna tra i due sistemi, in relazione ai fatti commessi a tutto il 23 dicembre 2013.
Per i fatti, invece, commessi dopo il 24 dicembre, l’art. 2 della L. 10/2014 appare di maggior favore, rispetto all’altra previsione normativa, perché il massimo edittale è di cinque anni, in luogo di sei.
Ovviamente tale norma non può, però, disporre retroattivamente.
Nulla muta, invece, ad avviso della scrivente, sia per la coltivazione, che per la detenzione.
1) Per la coltivazione resta la teorica previsione di reato di cui all’art. 73 dpr 309/90.
Uso il termine teorica, in quanto sempre più giudici di merito (e qualche timida decisione della Suprema Corte di Cassazione) aprono alla possibilità di ritenere che in specifiche situazioni la coltivazione non costituisca reato, sulla base dell’utilizzo di due parametri alternativi.
Il primo di essi è quello (propugnato da sempre dallo scrivente) che impone una valutazione peritale di natura individuale di ciascuna delle piante che vengano rinvenute e sequestrate.
Allo stato attuale, purtroppo, in troppi processi la consulenza tossicologica, viene svolta commettendo due errori prospettici fondamentali.
Il primo consiste nel fatto che, talora, si reputi sufficiente una verifica qualitativa, vale a dire che ci si accontenta di certificare la sola presenza generica di thc nei reperti.
Si tratta di opzione inaccettabile processualmente.
La presenza generica di thc non è affatto sufficiente a :
– precisare il sesso della pianta
– certificare la percentuale e l’effettivo quantitativo del principio attivo contenuto.
Questi due sono, infatti, dati fondamentali ed imprescindibili, onde comprendere, preliminarmente a qualsiasi altra valutazione, (qualunque sia il numero di piante), quali di esse potessero essere già in grado di produrre sostanze psicoattive.
Va sottolineato, poi, che non si può pensare presuntivamente che due o più piante possano essere identiche tra loro sul piano organolettico, anche se provengono dalla medesima tipologia di semi, anche se la semina è avvenuta nello stesso periodo.
E’ necessario, quindi, accertare in concreto – perché la coltivazione ove ritenuta reato, va considerata reato di pericolo concreto – tutti i caratteri genetici che contraddistinguono ogni vegetale.
Non esiste, quindi, una proprietà transitiva in base alla quale ciò che risulta in capo ad un reperto deve essere inteso come espressione comune ed identica per tutti i reperti, astrattamente della stessa specie.
Il secondo riguarda, invece, la contestazione della scelta di offrire conclusivamente una valutazione aritmetica di carattere globale e non di tipo individuale in ordine al thc rinvenuto.
Tale modus operandi, parte dal presupposto che è insito nell’utilizzo, indiscriminato, dell’improprio risultato di una somma dei singoli principi attivi contenuti in vegetali tra loro differenti.
Come detto in precedenza, non si può, affatto, operare un’indebita omologazione di una pluralità di piante, giacchè è dall’esame individuale di ciascuna di esse (e dalla verifica della rispondenza delle stesse agli stereotipi valutativi, scientifici, in essere) che si può pervenire all’individuazione di un’ipotesi di reato meno.
Quindi, affermare che, complessivamente inteso, il materiale coltivato (laddove si sia in presenza di più piante) presenti un certo principio attivo, oppure una certa percentuale di principio attivo, costituisce – ad avviso di chi scrive, per le ragioni dianzi esposte – l’espressione di un palese errore di carattere sistematico.
Sotto altro aspetto, si deve, poi, rilevare che si deve continuare a seguire la strada della relazione fra coltivazione ed uso personale.
In questo senso, al di là dei principi introdotti dalle notissime sentenza del G.M. di Ferrara o del GUP di Cremona, anche la Corte di Cassazione (sent. 12612/13 – 18 marzo 2013 Sez. Sesta) ha posto l’accento sul problema della offensività della condotta.
Si è, così, precisato che laddove il comportamento dell’agente (la coltivazione), anche se astrattamente idoneo a violare la norma, si riveli, in realtà, indirizzato a scopi di versi da quelli oggetto della tutela giuridica, non vi è reato.
Poiché la finalità teleologica del dpr 309/90 è quella di evitare la diffusione degli stupefacenti, una coltivazione che si orienti univocamente a soddisfare necessità personali del solo coltivatore, appare non confliggente con gli scopi tutelati.
Per la detenzione ritengo continuino a potere essere utilizzabili i criteri precedentemente previsti, in quanto – nonostante la sentenza n. 32/2014 – si tratta di criteri, taluni dei quali privi del carattere della tassatività, frutto anche di elaborazione fattiva giurisprudenziale, vero esempio di diritto vivente.
Vale, quindi, a dire che la sola detenzione di quantitativi non eccessivi (diciamo sino ad un centinaio di grammi, laddove il thc non sia particolarmente elevato) può essere ritenuta destinata al consumo personale, ove si sia in assenza di elementi che possano essere assunti come prove logiche di una predisposizione di attività di spaccio o, comunque, di cessione a terzi (sostanza da taglio, contatti personali o telefonici con terzi assuntori, presenza di strumenti per il confezionamento di singole dosi,), oppure laddove il detentore non risulti – a propria volta – assuntore.
Negli ultimi tempi questo indirizzo si concretizzato, tant’è che posso segnalare, in attesa della loro pubblicazione, le sentenze dei GUP di Lecco, di Pisa e ieri di Cuneo, che hanno concluso nel senso che prospetto.
Carlo Alberto Zaina