La lezione dei ballottaggi

Per anni abbiamo ricevuto pesanti critiche, anche da parte di molti amici che venivano dal nostro stesso mondo e con i quali avevamo condiviso una lunga militanza politica, per non esserci voluti schierare con nessuno dei due poli, che hanno dominato la scena politica italiana. Principalmente siamo stati accusati di antiberlusconismo, perché, prima di chiunque altro, abbiamo identificato nel Premier il responsabile di una deriva populista con caratteristiche pericolose per la stessa democrazia. Egli, oltre ad aver determinato, a destra, la nascita di un grande partito padronale di stampo peronista, ha finito con l’agevolare la prevalenza, a sinistra, di una tendenza, uguale e contraria, altrettanto populista e con venature fortemente massimaliste e giustizialiste.

Anche dopo il risultato dei ballottaggi per l’elezione dei sindaci, ovviamente, nessuno ci ha dato ragione. Il PD è prigioniero ed ostaggio di un De Magistris, persino più  pericoloso di Di Pietro, e di un Vendola, ispiratore di sogni a volte suggestivi,  ma condizionato dai propri legami con le frange più estremiste del vetero-sindacalismo.

Nei commenti dei risultati elettorali è stato omesso di approfondire le ragioni del malessere di quella maggioranza relativa degli italiani, che hanno disertato le urne, perché non si riconoscono nel pasticciato bipolarismo populista, che  dovrebbe invece essere considerato il vero sconfitto dall’elettorato.

Si rischia che, come nel novembre del 1993, la protesta popolare, che ha caratterizzato il voto, sia scambiata per il segno di una scelta a favore di una sinistra, complice di aver accettato una perversa logica bipolare, priva di ancoraggi valoriali e programmatici. Il messaggio che viene dall’analisi del dato elettorale, appare invece più come una reazione contro il sistema, che come una indicazione di segno prettamente politico.

Gli elettori hanno chiaramente espresso il loro dissenso verso Berlusconi e la sua non politica, basata sulla propaganda e sulla gestione del potere. Nessuno può rifiutarsi di capire che domenica scorsa il Premier è finito politicamente e che, se si vogliono evitare altre reazioni ancora più radicali di quella registrata a Napoli, il Paese deve ritrovare la via della ragione. Questa non può che essere la via della politica, come l’abbiamo conosciuta e come è sempre stata. Sarà forse difficile spiegarne le logiche complesse a quelle generazioni di giovani, che non l’hanno mai conosciuta e che, probabilmente, pensano che non vi sia altra strada se non quella della tifoseria da stadio e dell’esasperazione dei toni, come hanno fatto, anche nell’ultima campagna elettorale, PDL e Lega da una parte e Di Pietro e De Magistris dall’altra. Preoccupa il modo in cui, i media e principalmente i cosiddetti programmi di approfondimento, hanno dato la loro lettura distorta dei risultati. D’altronde la notizia di un avviso di garanzia nei confronti dei direttori delle testate che la scorsa settimana avevano mandato in onda uno spot televisivo del Presidente del Consiglio, che lo ha ulteriormente danneggiato, dimostra che la strada scelta per affondare definitivamente Berlusconi, non è, come dovrebbe, quella maestra della politica, ma sempre quella giudiziaria, che, oltre ad essere impropria, radicalizzando il contrasto, potrebbe finire col resuscitarlo, come ha fatto spesso in questi anni. Noi che consideriamo da sempre l’attuale Premier pernicioso per la stessa tenuta democratica del Paese, ci auguriamo che possa essere sconfitto politicamente e non attraverso vie che nulla hanno a che fare con la democrazia, come la piazza o i tribunali.

Non chiediamo neppure le sue dimissioni, perché sappiamo che non ha la cultura istituzionale e patriottica per darle. Piuttosto si adopererà in un altro sforzo per rafforzare la sua claudicante maggioranza parlamentare, offrendo contropartite agli opportunisti di turno e paventando, per i deputati che certamente non verrebbero rieletti, il rischio che, con la fine prematura della legislatura, non otterrebbero neppure il vitalizio. Ci auguriamo invece che, dopo una prima, forse salutare, reazione istintiva, in Italia, rinasca una voglia di partecipazione alla vita democratica, come non c’è stata nell’ultimo quindicennio e confidiamo che tale desiderio si registri principalmente nelle generazioni più giovani; cioè in coloro che si giocano, nelle scelte del prossimo futuro, il proprio avvenire. Intendiamo fare la nostra parte, con ancora maggiore energia che in passato per far si che, alla attuale politica muscolare, si sostituisca una politica delle idee, senza pregiudizi di carattere ideologico, ma scommettendo che possano prevalere le ragioni alle suggestioni.

Le difficoltà economiche e finanziarie nelle quali si dibatte il mondo intero e la stessa Europa, certamente più gravi in Italia, come in tutte le nazioni dell’ area mediterranea del nostro continente, impongono scelte dolorose, ma necessarie. Temiamo che un rigurgito di statalismo, di stampo federalista o di miope sindacalismo, possa condurre a scelte sbagliate, aggravando ulteriormente il nostro debito pubblico e quindi mettendoci fuori dall’area dell’Euro. La ricetta liberale è quella di massicce privatizzazioni e liberalizzazioni, senza preoccuparsi della nazionalità dei necessari capitali, per abbattere significativamente il debito pubblico, come ci impongono i trattati sottoscritti con i partners europei. A fronte di ciò, nel Mezzogiorno, urgono investimenti in infrastrutture ed una fiscalità di vantaggio per favorire l’iniziativa privata in quelle aree, da concordare al livello europeo, imponendo anche la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Ovviamente, condizione ulteriore del processo virtuoso è rappresentata dalla necessità di una drastica riduzione della spesa pubblica improduttiva e dalla eliminazione delle pastoie burocratiche, ponendo le risorse che tale riforma potrà produrre al servizio della scienza e dei saperi, quindi superando il concetto del titolo di studio pezzo di carta, ma  garanzia di preparazione di eccellenza. Insomma l’Italia ha bisogno per rilanciare la competitività, l’occupazione ed il mercato, di una grande iniezione di liberalismo,  senza la quale non può determinarsi la necessaria crescita del PIL e dei consumi.

Il primo necessario passo è il collasso del sistema, che auspichiamo da tempo e, con esso, del PDL, che è il partito, che lo ha teorizzato e rappresentato. Per questo motivo, senza iattanza, il PLI, che ha sempre negato che la rivoluzione liberale potesse essere realizzata da chi nulla aveva nel proprio DNA di tale rigorosa formazione culturale, deve  rendersi più visibile e qualificarsi come punto di riferimento per il necessario ritorno alla Democrazia Liberale,  condizione necessaria per intraprendere la via di un nuovo  Risorgimento nel segno della modernizzazione.

Stefano de Luca

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