
In Senato con le mani in tasca
Credo che ad ognuno sia capitato di cogliere segnali fortissimi, inequivocabili e sperare di essersi sbagliato: percepire dai rumori della terra che sta per sopraggiungere un terremoto, o capire dalla stranezza della forma delle nuvole, dal loro colore cupo e dalla velocità di spostamento, che è in arrivo un uragano, oppure desumerlo dall’ululato dei cani, che sono i primi ad avvertire tali fenomeni.
La passione per la politica mi ha accompagnato da quando avevo i calzoni corti. Sono abituato ai suoi rumori, a volte anche ai fruscii, alle minacce, al pericolo di drammatiche rotture, agli scontri all’ultimo sangue. Poi normalmente tutto va a posto, più o meno. Resta qualche ferito, anche grave, sulla strada; è inevitabile, fa parte di una prevedibile, tragica liturgia. La lotta nell’arena è segnata da vincitori e sconfitti. Ma poi c’è sempre la prossima occasione, in cui le carte si rimescolano, alcuni perdenti di ieri si rifanno, altri, che sembravano invincibili, crollano. Il grande gioco della politica è sempre stato come una girandola in cui chi cade, ha quasi sempre riservata una occasione per rialzarsi e magari colpire alla schiena il vincitore di ieri.
La prima volta in cui l’epilogo è stato diverso, si è verificata nel ’92 -’94, perché vi furono i morti veri, che non si rialzarono più; e non furono soltanto le persone, (alcuni pagarono con la stessa vita) ma anche i partiti. In un modo o nell’altro ne furono fatti fuori cinque, ed erano quelli che avevano governato; annientati per un’ondata inarrestabile di moralismo sul costume generale dei rapporti tra politica ed affari. Tutti spazzati via, tranne uno, il sesto, altrettanto compromesso; quello che, dopo averlo concepito e pazientemente preparato, aveva per anni allevato in incubatrice il partito dei giudici. Fu risparmiato, ma trattato con senso di estraneità, in quanto non gli fu permesso di divenire organico alla nuova strategia del governo dei magistrati, per paura che, anche un residuo di cultura istituzionale, avesse potuto dar luogo a qualche incertezza. Fu l’errore del partito della Costituzione più bella del mondo, il quale non si rese conto che, senza conoscere certi meccanismi, senza alcuna complicità, senza forti legami con l’onnipotente burocrazia e con i piani alti della finanza, non si poteva andar oltre il ridimensionamento, l’amputazione, la delegittimazione. Per tale ragione il sistema è riuscito a sopravvivere.
Per ucciderlo era necessario l’antisistema, la rivoluzione totale dal di dentro. A tale scopo il delirante movimento di Grillo è risultato utilissimo. Lo stesso comico non si è reso conto di quanto la minaccia esterna, il radicale attacco alle istituzioni, abbia aiutato una rivoluzione più dolce, accettabile, persino invocata, come se il renzismo ne fosse nient’altro che un derivato, trapiantato all’interno del PD. La rassicurante faccia da bravo ragazzo di periferia di Renzi, piccolo rivoluzionario bambino, che ha giurato di essere uno scout per sempre, insieme alla preoccupazione di non riuscire a dominare un movimento che sembrava incontenibile nel popolo della sinistra, è finita con l’apparire il minore dei mali, al quale tutti si sono rassegnati.
E’ piaciuto il turbo attivismo, condito con gesti accattivanti (la messa alla domenica con la famiglia, il viaggio in treno, le passeggiate a piedi per le vie di Roma e quelle in bicicletta a Firenze, l’ingresso a Palazzo Chigi con la Smart). Poi sono arrivate le promesse di non fermarsi un momento, di realizzare una riforma al mese e di cambiare l’impianto costituzionale dello Stato, senza troppo spaventare, al momento, l’alleato Alfano, per accoltellarlo domani (il licenziamento in tronco di Letta è stata la prova generale). Il patto con Berlusconi, quello sì appare solido, ma non perché il Cavaliere gli abbia promesso l’eredità, non per generosità, solo per convenienza. L’uomo di Arcore in primo luogo pretende la completa distruzione della fastidiosa pattuglia di traditori del NCD, successivamente si aspetta una futura alleanza di carattere duraturo. Passaggio obbligato sono le riforme elettorale e costituzionale, per cancellare dalla geografia politica le forze minori ed eliminare la fastidiosa presenza del Senato, in modo da consentire al “Renzusconismo” di dominare l’intera scena.
Altre questione saranno i ruoli: Il giovane sindaco d’Italia governerà a suo modo (speriamo il meno deleterio possibile). Il vecchio leader avrà la garanzia assoluta che i propri interessi reali non saranno toccati e che i due sodali compiranno uno sforzo comune per contenere le bande armate di una magistratura ancora combattente, la quale, in un modo o nell’altro, dovrà prendere atto della normalizzazione, mentre cercheranno di produrre gli anticorpi necessari ad emarginare le Procure più riottose. Grillo non servirà più come deterrente esterno e verrà progressivamente emarginato, anche utilizzando la disponibilità al tradimento di alcuni dei suoi, che verrano arruolati.
Dopo oltre un ventennio di spericolati tentativi, tutti falliti, finalmente l’obiettivo di uccidere la politica sembra raggiunto. I partiti minori, quelli identitari, nei quali si poteva nutrire qualche speranza di recuperare una politica alta, sono stati o presto saranno distrutti dal patto perverso di condurre in porto il golpe di una legge elettorale, che fa inorridire le democrazie più avanzate del Mondo e che neanche Mussolini avrebbe saputo immaginare. Di fronte ad essa, quindi, la legge Acerbo fu nient’altro che un mite tentativo di aiutare il regime ad ottenere una maggioranza più solida. Potremo fra qualche tempo amaramente affermare che in Italia molto più del PCI, del grande movimento sindacale e cooperativo, dello steso terrorismo e dell’assalto delle procure militanti, riusciranno lo scoutismo e la volontà determinata di sfruttare spregiudicatamente l’ondata di speranza di un’opinione pubblica disorientata. Basteranno per addormentare le coscienze il diluviale eloquio di un giovane fiorentino, tanto determinato, quanto improvvisatore, che ha persino osato sfidare il Senato con le mani in tasca, dopo aver licenziato in tronco il proprio predecessore, del suo stesso partito e che, giustamente, gli e l’ha giurata per sempre.
Questo ingresso in un tunnel buio, nel quale non vedo alcuno sbocco che in qualche modo abbia a che vedere con la Democrazia Liberale, non so, e francamente non credo, che potrà inaugurare con qualcosa di positivo la tanto attesa Terza Repubblica. In tutta onestà i segnali fanno prevalere un forte scetticismo, anche perché l’esperienza ci insegna che la Storia non è stata scritta dai vari capipopolo, alla Masaniello, ma da grandi movimenti di idee condivise ed interpretate da uomini di immenso spessore, elevati al rango di padri della Patria. Purtroppo voltandoci in giro non vediamo alti e salvifici pensieri e meno che meno giganti, ma soltanto una ammucchiata di guitti di borgata, ministri giovanotti e ragazzotte, accomunati dall’espressione felice di esser consapevoli di non contare nulla, ma tutti confidenti nelle straordinarie qualità del capo. Abbiamo già visto in Italia, purtroppo una volta, questo triste spettacolo, anch’esso nato dall’odio irriducibile verso le idee liberali ed abbiamo impressi i volti sinistri di coloro che lo interpretavano. Speriamo proprio di non dovere, magari senza accorgercene, precipitare in un’analoga drammatica esperienza.
Tratto da Rivoluzione Liberale