In attesa della Corte Costituzionale
In attesa che la Corte Costituzionale si esprima in queste ore sull’ammissibilità dei quesiti referendari proposti contro l’attuale Legge elettorale e sottoscritti da oltre un milione e duecentomila cittadini, riportiamo la traccia dell’intervento che ieri il nostro sen. Enzo Palumbo – membro del Collegio di difesa – ha tenuto in Camera di Consiglio dinanzi ai Giudici della Corte Costituzionale.
«Sig. Presidente, Sig.ri della Corte. Non ripeterò le ragioni giuridiche delle memorie versate in atti, già brillantemente illustrate dai miei illustri colleghi. Mi porrò invece quella che a me sembra la domanda alla quale oggi tutti, chi in una posizione, chi in un’altra, siamo chiamati a rispondere:“Qual è la posta in gioco?” Azzarderò subito una risposta e proverò poi a motivarla. A me sembra che la posta in gioco sia la sorte della Democrazia italiana! Perché un Paese va dove lo porta la sua legge elettorale, assai più di quanto non faccia la sua Costituzione. La Costituzione di un Paese è, a seconda dei casi, il suo punto di partenza o il suo punto di arrivo; ma il percorso di una società politicamente organizzata, quello che la porta da un ordinamento costituzionale all’altro, è dettato dalla sua legge elettorale, perché è la legge elettorale che trasforma i voti in potere legislativo e talvolta anche in potere costituente. Ed anche perché è proprio la legge elettorale che finisce per determinare gli stessi comportamenti elettorali, incentivando ulteriormente l’incidenza del voto sulle istituzioni.
Immaginiamo allora per un momento che la legge elettorale italiana sia un treno sul quale viaggia la nostra Democrazia. Questo treno corre su un binario obbligato, costituito da due rotaie: da un lato , la rotaia della “non giudiziabilità” del processo elettorale, che dall’inizio sino alla fine resta vincolato al principio dell’autodichia delle Camere (art. 66 Cost.), il che preclude l’accesso a qualsiasi sindacato di costituzionalità; dall’altro lato, la rotaia della “indefettibilità”, affermata con riferimento agli organi costituzionali, proprio dalla Corte Cost., a partire dalla sentenza 29-1987 sul referendum abrogativo del sistema elettorale della quota togata del CSM.
Se il nostro treno procede su quel binario obbligato, può accadere che esso vada incontro ad un burrone, tutte le volte che una maggioranza politica (oltretutto, propiziata da un sistema elettorale maggioritario, che trasforma il maggioranza la più forte delle minoranze) si faccia lecito di stabilire norme che mortifichino i cardini della democrazia rappresentativa; ed in tal caso nessuno potrebbe farci nulla! E la nostra democrazia, viaggiando su quel treno, potrebbe precipitare nel burrone dell’antidemocrazia; da qui la necessità di individuare una via d’uscita.
Per restare nella metafora, una sorta di scambio, di deviazione, che permetta di evitare il disastro. La richiesta referendaria all’esame rappresenta l’opportunità giuridica che l’ iniziativa dei promotori, prima, e la massiccia adesione dei cittadini, poi offrono alla sensibilità ed alla sapienza giuridica della Corte per evitare che quel possibile disastro si consumi senza che alcuno possa intervenire per evitarlo. Credo che a questo punto sia già chiaro quale mi sembra essere la posta in gioco. Occorre individuare, con ogni strumento giuridico possibile consentito dall’ordinamento e dai principi che lo presidiano, una strada per uscire da questo percorso obbligato per consentire al popolo di essere giudice ultimo della legge elettorale del Paese. E, questa strada, i promotori hanno pensato di individuarla nei quesiti referendari al vostro esame, proponendo l’abrogazione (totale o in parte qua) dell’attuale legge elettorale, con la conseguente automatica “reviviscenza” della Legge Mattarella (o, se si vuole, con la conseguente “riespansione” della sua efficacia temporale).
Che ciò sia possibile, lo ritiene gran parte della dottrina costituzionale italiana, che nei giorni scorsi ha diffuso un appello in tal senso, sottoscritto da 111 costituzionalisti, che mi dicono essere cresciuti a 115 negli ultimissimi giorni.
Se si vuole, si può! Farò in proposito solo un accenno ai precedenti. Angelo Panebianco, un accademico di scienza politica, che è anche un attento e critico commentatore della società italiana, sul Corriere della Sera di domenica scorsa ha evocato il caso del referendum sul divorzio. Com’è noto, quel referendum è stato allora dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 10-1972, ed è stato poi regolarmente celebrato con esito negativo per i proponenti, risultandone così confermata l’introduzione del nuovo istituto. E tuttavia, ammettiamo per un momento che le cose fossero andate diversamente, e cioè che la proposta abrogativa fosse risultata approvata dal corpo elettorale, con conseguente abrogazione della L. 898-1970.
C’è forse qualcuno che si sentirebbe di sostenere che le norme codicistiche che, prima della novella, sancivano l’indissolubilità del matrimonio civile non avrebbero immediatamente riacquistato la loro originaria efficacia, senza alcun vuoto legislativo in materia, con conseguente riespansione del principio della indissolubilità del matrimonio civile? Con il che risulta dimostrato, una volta di più sul piano logico, che l’abrogazione di una norma non ne mette in discussione la validità e comunque l’ esistenza in vita, ma soltanto la sua efficacia nel tempo, per cui essa, in ragione della sua abrogazione, non sparisce dall’ordinamento, continua a regolare almeno i casi esauriti e talvolta anche quelli pregressi ancora in itinere, mentre, per quel qui interessa, si adagia per il futuro in uno stato di quiescenza, dal quale può risvegliarsi per riespandere la sua efficacia regolatrice tutte le volte che l’ordinamento lo consente, come certamente può avvenire anche per via referendaria.
E Valerio Onida, un illustre costituzionalista che è stato presidente di codesta Corte, in un articolo sul Sole 24 Ore della scorsa settimana ha scritto che “Dal punto di vista logico nulla osta a configurare un effetto di ripristino, se questo è il senso dell’abrogazione che si vuole disporre e si dispone”.
E qui mi fermo, per tornare al ragionamento iniziale. Se dichiarati ammissibili, i quesiti all’esame (il primo, il secondo, entrambi, non importa!) consentiranno di andare verso quel giudizio popolare negativo, che già esiste nei commenti di ogni giorno, ma che sin qui non ha trovato la sua formalizzazione in una seria e credibile iniziativa riformatrice, tante volte evocata e profilata, ed altrettante volte disattesa da chi poteva e doveva provvedere.
Chiaramente, ciò che oggi è in discussione è la sorte di questa legge elettorale, che notoriamente riscuote l’unanimità dei dissensi, senza che si riesca a trovare un consenso per cambiarla in meglio rispetto ai canoni della democrazia rappresentativa sanciti nella nostra Costituzione.
Nei giorni scorsi sono fioriti tanti buoni propositi, destinati ad appassire non appena la giornata di oggi sia stata superata senza danno per le forze politiche che hanno originato questa straordinaria e sospetta fioritura.
Diciamoci la verità: nulla consente di illudersi che parlamentari eletti con questa legge elettorale trovino in sé stessi la forza di mettere in discussione il meccanismo da cui promana la loro formale legittimazione e che in qualche modo garantisce la loro possibilità di essere rieletti; e tutto anzi lascia prevedere che anche i più autorevoli degli avvertimenti, i “warning” come s’usa dire, privi come sono di effettività giuridica, resterebbero inascoltati. Mentre risulterebbe disattesa la richiesta referendaria, che, se ci fosse stato il tempo ed il modo di farlo, sarebbe stata sottoscritta dal 90% dei cittadini italiani.
E se questa richiesta, questa legittima aspettativa, venisse disattesa, ne risulterebbe definitivamente compromessa nell’opinione pubblica la speranza sulla la capacità dell’ordinamento di autoriformarsi. E le conseguenze di tutto ciò ricadrebbero su tutte le istituzioni, nessuna esclusa.
Ma io credo che ci sia da dire qualcosa in più: questa può anche essere l’occasione per individuare “a regime” un meccanismo di garanzia, che consenta di tornare alla legge elettorale precedente tutte le volte in cui una legge elettorale peggiorativa del livello della democrazia rappresentativa possa mettere a rischio le libertà fondamentali dei cittadini. Perché, se oggi la posta in gioco è “questa” legge elettorale, che ha espropriato i cittadini del diritto di scelta dei propri rappresentanti;
E’ anche vero che la reale posta in gioco è quella di stabilire un meccanismo costituzionale di garanzia rispetto a qualsiasi altra legge elettorale che in futuro possa fare anche di peggio, via via riducendo il livello di rappresentatività della nostra Democrazia; anche perché, tra le tante proposte che si susseguono, ce n’è anche qualcuna che spingerebbe a cambiarla addirittura in peggio non solo questa legge elettorale, ma addirittura anche gli stessi assetti istituzionali dello Stato, assecondando una deriva plebiscitaria antiparlamentare, che nella nostra società c’è sempre stata, e che addebita al sistema parlamentare, quale disegnato dalla nostra Costituzione, di essere un ostacolo per la celerità e l’efficienza del sistema.
Ciò che oggi siamo portati a temere è già accaduto in passato nel nostro Paese, con una serie di leggi elettorali via via peggiorative, che si sono succedute in Italia in un passato che sembra insieme lontano (per i tempi) e vicino (per i temi della discussione).
E’ accaduto. Prima, nel 1923, con la legge Acerbo, che assegnava il 66% dei 535 deputati alla lista maggioritaria che avesse conseguito almeno il 25% dei voti, e che fu votata o comunque non osteggiata da fior di democratici, tra cui, mi spiace dirlo, anche molti “popolari” e “liberali” (i fascisti in quel Parlamento erano solo 35, e nella Commissione dei 18 che elaborò la legge, e che fu presieduta da Giolitti, erano appena in 3). Poi, a seguire, nel 1928, con la legge Rocco, che prevedeva una sola lista di 400 candidati (da approvare o respingere in blocco), e che riduceva l’elezione ad una semplice espressione di consenso o di dissenso rispetto ad un sistema di governo e ad un indirizzo politico. Infine, ancora peggio, nel 1939, con l’istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (composta da 600 consiglieri nazionali, non più Deputati), con la totale eliminazione di ogni parvenza di “elezionalismo”, termine spregiativo allora usato da quel regime per irridere alla democrazia rappresentativa e che oggi è per fortuna sparito anche dai vocabolari. Giuseppe Bottai, un protagonista critico del fascismo, scrisse, qualche anno dopo, che il regime non volle essere rappresentativo, ma volle fermarsi alla rappresentazione. E mi vengono in mente le parole di un grande sociologo di oggi, Giuseppe de Rita, quando qualche anno fa ha scritto che “in Italia c’è un difetto di rappresentanza ed un eccesso di rappresentazione”!
Ed in un appello di due anni fa dell’Associazione Libertà e Giustizia, firmato tra gli altri da Gustavo Zagrebelsky (che è stato Presidente di questa Corte) abbiamo letto che “La democrazia rischia di diventare demagogia”; ed ancora che “l’investitura da parte di monarchie o oligarche di partito si mette al posto dell’elezione”; che “la selezione della classe politica è diventata una cooptazione chiusa”; che “il Parlamento è in via di esautoramento”; e che “la separazione dei poteri è gravemente minacciata”; in breve, che “La democrazia italiana è in bilico, mentre tutto si sta accentrando in alto”. Senza andare troppo lontano, ciò sta accadendo anche oggi vicino a noi, in Ungheria, la cui legge elettorale è stata addirittura evocata da qualcuno come una possibile soluzione.
E mi viene allora di pensare che, ciò che allora è accaduto, potrebbe oggi ripetersi anche da noi,perché le vittorie della Libertà non sono mai definitive. I suoi storici nemici – che sono gradatamente: prima, l’intolleranza, l’antiparlamentarismo, la demagogia, poi, a seguire, il populismo ed il plebiscitarismo, infine, a concludere, la dittatura e la tirannia – sono sempre in agguato, pronti ad utilizzare le occasioni più disparate e gli uomini più impensabili per rimetterla in discussione.
Ed allora, signori della Corte, al di là delle tecnicalità delle questioni giuridiche insite nella richiesta referendaria, a cui pure va dato puntuale riscontro, come sono certo che farete, la questione che va risolta, qui ed ora, è quella di dare ai cittadini, oggi ma anche per un futuro che potrebbe non essere lontano, la possibilità di dire l’ultima parola sulla legge elettorale del Paese, così garantendo che ciò che è già accaduto n passato non possa più accadere!
Voi, signori Giudici, per il rispetto che ciascuno di Voi si è meritato nella sua professione di origine, e per il rispetto che la Corte come istituzione si è meritata in tanti anni spesi al servizio del Paese, siete ormai considerati come l’ultima possibile isola della Ragione, quella che può essere chiamata, in momenti eccezionali, anche a guidare la trasformazione in meglio della società. Lo avete fatto in tantissime occasioni. Sono fiducioso che lo farete ancora una volta, consentendo agli italiani di esprimersi sui quesiti all’esame!»
Tratto da Rivoluzione Liberale