Il riscatto della dignità di Stefano de Luca
Di una sentenza definitiva non si può che prendere atto. Ogni altro commento sarebbe errato. In tutto il mondo, quale che sia l’ordinamento statuale, al potere giudiziario è affidato il compito delicatissimo di stabilire la verità legale. Quanto più un Paese è civile e moderno, tanto più l’ordine giudiziario funziona meglio ed è quindi in grado di assicurare una migliore approssimazione alla “verità”, grazie alla efficienza e neutralità del proprio sevizio di giustizia.
Totò Cuffaro è quindi ufficialmente e definitivamente colpevole dei reati per i quali è stato giudicato. Nessuno può legittimamente sollevare ulteriori dubbi e censure. Bisogna tuttavia dargli atto, a differenza di molti altri, di una dignità e di un rigore istituzionale esemplari. Senza tergiversare e, soprattutto, senza recriminare, in dignitoso silenzio, si è consegnato alle forze dell’ordine per essere condotto nel carcere di Rebibbia, lo stesso giorno del verdetto della Corte di Cassazione, dopo aver dato immediatamente le dimissioni da senatore. Il suo gesto di rispettosa sottomissione verso quelle stesse istituzioni, come egli ha detto, al cui servizio è stato per tanti anni con ruoli di grande responsabilità e prestigio, gli fa onore. Ha sicuramente commesso dei crimini, perché così ha accertato la giustizia, ma ha affrontato il suo duro e amarissimo destino con dignità.
Di fronte al dilagare di atteggiamenti meschini, improntati alla vigliaccheria, a chi ha deciso di presentarsi immediatamente ed in modo composto per pagare il suo conto con la società, non si può non riconoscere che, nel momento supremo, si è comportato da uomo. Oggi non è cosa da poco. Certo non basta a riscattarlo dalle sue colpe, ma ne dipinge un profilo diverso, qualificandolo come persona che intende intraprendere un cammino di responsabile espiazione. Da uomini che credono nella libertà e nella sovranità della legge e del diritto, non possiamo far passare tutto questo inosservato e non tributargli una umana e doverosa solidarietà, confidando che la severità della pena non sia tale da renderla insopportabile e che la possa espiare fino all’ultimo con la stessa dignità del primo giorno.