Il fallimento dell’Unione Europea

Se per un attimo resuscitassero Altiero Spinelli, Schumann, De Gasperi, Adenauer, Spaak, Gaetano Martino, sarebbero profondamente addolorati nel constatare come la loro intuizione, l’Europa, che avrebbe dovuto essere la nuova grande Patria in nome della quale sarebbero stati superati tutti i nazionalismi e le provinciali rivalità, stia registrando un clamoroso fallimento politico.

Il processo di costruzione dell’Unione, anziché imboccare la strada federale prefigurata dall’utopia di Spinelli e dagli altri padri fondatori, si è sviluppato secondo la formula di De Grulle della Europa delle Patrie. L’egoismo nazionalista di alcuni stati, che non hanno voluto cedere neppure un briciolo del proprio potere politico, trasferendo al livello sopranazionale almeno la politica estera e di difesa, ha finito col far prevalere i burocrati di Bruxelles ed i ragionieri di Francoforte. Francamente il grande sogno europeo meritava risultati più importanti di quelli affidati alla complessa e talvolta corrotta burocrazia della Commissione per distribuire modesti aiuti di settore, sempre più dirottati verso i nuovi arrivati Paesi dell’Est. Il positivo risultato della moneta unica, intanto, non ha coinvolto tutti gli stati aderenti, tra i quali anche qualcuno di notevole importanza. In secondo luogo, al primo stormir di foglie, ha mostrato una debolezza intrinseca, mentre all’inizio aveva avuto il merito di apparire una moneta forte.

L’Unione non ha saputo affrontare in chiave unitaria la Crisi economica al momento della sua insorgenza nel 2008, lasciando a ciascun Paese il compito di contenere i danni, di salvare le banche ed assicurare il controllo del debito pubblico. Solo quando alcuni Paesi sono stati sull’orlo del default, faticosamente, si è arrivati alla intesa per un impegno comune, peraltro limitato.

Anche la decisione del Consiglio Europeo del 24 e 25 marzo scorsi di procedere ad una riscrittura del patto di stabilità e di crescita non sembrano segnare la svolta politica auspicata e non sembrano registrare progressi sul terreno della integrazione dei mercati. Ci triviamo di fronte ad una doppia crisi: quella economico finanziaria non ancora domata, anzi pericolosamente aggravata dalla ripresa della corsa all’inflazione, e quella politica, connessa alle rivolte scoppiate nei Paesi della fascia costiera araba dell’Africa, con gravi ricadute nei confronti dell’intera Europa. Ciascuna delle principali Nazioni ha scelto di assumere una propria posizione, non coordinata con quella delle altre. Francia e Gran Bretagna, ma soprattutto la prima, senza neppure attendere la definitiva formalizzazione della Risoluzione dell’Onu, sono andate a bombardare le postazioni dei fedeli di Gheddafi in Libia, dopo aver fornito le armi ai rivoltosi. La Germania si è defilata, astenendosi in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e decidendo di non partecipare all’azione militare, anzi, ritirando le proprie navi, che pattugliavano il Mediterraneo. L’Italia ha dovuto scontare le incertezze che derivavano dagli oscuri rapporti col dittatore libico. Tuttavia non ha potuto non mettere a disposizione le proprie Basi ed i propri aerei specializzati nelle azioni di intercettazione dei radar. Inoltre si è vista piovere addosso il grandioso problema di carattere umanitario della valanga di disperati, che si sono riversati a Lampedusa. Ancora una volta l’Europa è stata assente e gli altri Stati, in particolare la Francia, hanno assunto un atteggiamento ostile, rifiutandosi di condividere con il nostro Paese il dovere della accoglienza umanitari. Peggio, con una interpretazione scorretta delle norme comunitarie vigenti,ha deciso di respingere i migranti che, attraverso il passo di Ventimiglia, provenienti dall’Italia, cercavano di entrare nel suo territorio, come era logico, trattandosi di cittadini tunisini, di lingua francese, che tentavano di ricongiungersi con altri perenti, che già risiedono in quel Paese.

Se questi sono i risultati di quasi un sessantennio di costruzione europea, difficilmente qualcuno potrà essere ottimista sul suo futuro. Se poi si vuol considerare che si è già ingaggiata una sgradevole fase di concorrenza tra Italia e Francia per la supremazia nei rapporti economici col Nuovo Governo dei rivoltosi, senza tenere conto degli antichi legami italo-libici, è palese che in Europa di Unione c’è poco: inoltre non s’intravedono personalità in grado di assumere leadeschip di grande prestigio, che possano rilanciare efficacemente il progetto iniziale, che langue palesemente.

Gli stessi Usa, appesantiti dalla crisi economica, scottati dalle esperienze dell’Irak e dell’Afganistan, appaiono incerti e comunque non in grado di imporre la coesione. La assegnazione del comando delle operazioni alla Nato, per il modo stesso in cui è avvenuta, non sembra poter condurre a svolte decisive, anzi assume il significato di un compromesso. Eppure l’Occidente euroatlantico unito, guidato dagli USA, potrebbe giocare una carta fondamentale per imprimere alla rivolta dei paesi africani della fascia araba una direzione verso la modernizzazione, la democrazia ed il rinnovamento.

Liberando, allo stesso tempo, quei territori sofferenti dai dittatori ed emarginando il fondamentalismo religioso, il mondo Occidentale potrebbe dimostrare concretamente che i propri interessi non sono soltanto connessi alle risorse energetiche del sottosuolo arabo, ma, principalmente, ad esportare la propria cultura e le regole della Democrazia Liberale. Un tale successo, di natura epocale, forse più importante della liberazione dei Paesi dell’Europa dell’Est dall’imperialismo oscurantista sovietico, potrebbe assicurare un lungo periodo di pace e progresso, avvicinando la cultura araba a quella occidentale. Purtroppo manca il vicolo sopranazionale europeo, mancano gradi statisti, in grado di guidare questo processo, gli USA non paiono aver voglia di farlo loro, dopo i pesanti costi degli interventi in Irak ed in Afganistan. L’Europa langue e si perde nel provincialismo di dispute nazionali.

Stefano de Luca

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