Il baratro dell’irresponsabilità

Come era largamente prevedibile sin dal primo giorno, l’alleanza PD PDL è deflagrata. Sarebbe, infatti, ingenuo pensare che l’egoismo di parte non abbia  un ruolo preminente nei comportamenti politici, i quali, anzi, sono quasi sempre determinati dal desiderio di non scontentare l’elettorato consolidato e di  conquistare consensi sempre più vasti nella propria area di insediamento sociale.

In materia la sinistra è specialista. Basterebbe riflettere su quanto i suoi maggiori esponenti si sono dilungati nel sottolineare  l’enorme sacrificio per loro di accettare un governo di larghe intese con l’odiato PDL, tralasciando che a presiederlo era proprio il vice segretario del PD e che a tale partito appartengono la maggior parte dei ministri.

L’immobilismo del Governo Letta, non può che rappresentare l’effetto evidente della sostanziale diversità di interessi elettorali di cui erano portatrici le due maggiori componenti politiche, che lo sostenevano, ciascuna preoccupata di dare ai propri elettori eventuali segnali di cedimento nei confronti dell’altra.

La vicenda dell’IMU ne è stata il principale esempio, come è apparso chiarissimo a tutti. Il reale problema non era di trovare nell’enorme ventre molle del bilancio dello Stato la copertura per le mancate entrate di quell’imposta, ma la preoccupazione di dare un vantaggio all’alleato, che ne aveva fatto una bandiera. Altrettanto è avvenuto per l’IVA, su cui PD e PDL erano d’accordo, ma ciascuno voleva che la copertura fosse a scapito di interessi, che gravitavano nell’alveo dell’elettorato di riferimento dell’altro, salvo, alla fine, incartarsi.

La differenza tra la buona politica e quella cattiva, principalmente quando     Gli schieramenti parlamentari  costringono a governi di coalizione, consiste nell’evitare che la partigianeria, sconfini nella irresponsabilità. Purtroppo i due principali partiti italiani tale limite lo hanno superato troppe volte, determinando la diffusa sfiducia che si avverte in ogni accenno alla politica, al bar, sull’autobus, in un ufficio, o in osteria.

In questo contesto si è inserita come un ciclone la questione della decadenza da senatore di Silvio Berlusconi, dopo la condanna definitiva della Cassazione per frode fiscale. Sulla costituzionalità o meno della retroattività della sanzione prevista dalla legge Severino, si è acceso uno scontro infuocato, che ha portato il PD ad una posizione intransigente per timore di perdere la sintonia con la parte prevalente del proprio elettorato. Per converso ha costretto il PDL ad arrivare alla decisione estrema delle dimissioni in massa dei propri parlamentari. Da tutto questo, al ritiro della delegazione al Governo, il passo non poteva che essere breve.

In realtà su Berlusconi, comprensibilmente scosso dalla condanna definitiva, ha prevalso la preoccupazione, certo non infondata, che, rimanendo fuori dal Parlamento e senza immunità, potrebbe essere sottoposto ad un provvedimento di custodia cautelare per uno dei processi pendenti o in istruttoria, finendo col trovarsi nelle condizioni di non poter guidare il suo movimento, di perdere la libertà personale e di mettere a rischio il suo patrimonio. I falchi del suo partito e, principalmente i suoi avvocati gli hanno prospettato tale, non improbabile scenario, convincendolo a scegliere la soluzione più estrema, rispetto alla linea di responsabilità, che, sia pure a fatica e con qualche contraddizione, fino ad allora aveva prevalso.

Umanamente è comprensibile il travaglio dell’uomo, che avrebbe potuto indurre il PD, se avesse tenuto alla sopravvivenza del Governo Letta, ad accettare l’escamotage di rinviare alla Corte Costituzionale la decisione sulla retroattività della Legge Severino, sapendo che, in ogni caso, nel giro di un mese, la Corte di Appello di Milano dovrà stabilire la durata del periodo di interdizione dai pubblici uffici, che avrebbe il medesimo effetto pratico della decadenza e di fronte alla quale il Senato non potrebbe che limitarsi a prendere atto. Si è preferito invece danzare sul baratro, spinti dalle rispettive tifoserie, senza dimostrare alcun senso di responsabilità per le inevitabili, gravi conseguenze.

Gli italiani dovranno quindi pagare, anche se forse per pochi giorni, l’aumento dell’IVA, subire una ripresa della crescita dello spread, il tracollo della Borsa e, sicuramente, rassegnarsi ad un ulteriore periodo di forte instabilità. Tutto questo deriva da una legge elettorale sconsiderata, che ha dato spazio a fenomeni di sterile protesta, con la conseguente elezione di un grande numero di parlamentari del Movimento Cinque Stelle, ma, soprattutto, è l’inevitabile approdo di un ventennio di cancellazione della politica fondata sulle  idee  e  sui valori, che ha permesso la crescita a dismisura di un partito padronale a destra e di un partito, privo di netta connotazione identitaria, a sinistra, ma motivato dall’antiberlusconismo, che ha rappresentato il tratto caratteristico e discriminante di tutto lo scontro politico dell’ultimo ventennio.

Nei prossimi giorni, come nel dicembre del 2010, assisteremo alla caccia disperata ai senatori “responsabili”, i quali (a differenza del povero Scilipoti, che si condanna con la sola esibizione del proprio personaggio) verranno invece elevati al rango di eroi, mentre, né più e né meno, come lo stesso Scilipoti, difendono un seggio parlamentare, che vedono traballare. Una maggioranza di due o tre voti, che dovesse reggersi sui senatori a vita e qualche neo responsabile ex grillino o piediellino pentito e pensoso, non potrà andare oltre la primavera, quando Renzi, quasi certo trionfatore delle primarie del PD, pretenderà di candidarsi alla guida del Paese e deciderà di staccare la spina all’Esecutivo. Intanto tutti noi pagheremo per la irresponsabilità di una classe politica inadeguata.

L’antidoto per evitare che un simile sistema si perpetui, non consisterà in un’altra legge elettorale, che finirà per coincide con l’interesse di chi in quel momento risulterà più forte, ma nel restituire ad una politica, fondata sui principi e non sugli schieramenti contrapposti, la moralità perduta, nonché alla magistratura la sua indipendenza, ma nei limiti dell’applicazione della legge, e, principalmente, a quest’ultima non solo il primato, come in ogni Stato di diritto, ma la caratteristica di generalità ed astrattezza, che spesso e scomparsa nei recenti provvedimenti.

L’Italia, prima ancora che di una forza liberale organizzata, che certamente manca e che risulterebbe molto utile, avrebbe bisogno di tornare ad essere una “democrazia liberale”. Al di fuori di questa strada, come ha dimostrato l’inglorioso epilogo di un ventennio dominato da emozioni di stampo peronista o chavista, non c’è altro che il baratro!

Tratto da Rivoluzione Liberale

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