Democrazia rappresentativa e partecipazione
Il risultato elettorale siciliano, con l’alto livello dell’astensione e col significativo successo del Movimento 5 Stelle ha portato il sistema politico italiano ad un livello di guardia che sarebbe stolto sottovalutare.
Oggi si tratta del Parlamento siciliano, ma possiamo agevolmente prevedere che presto il problema riguarderà altre realtà regionali (Lazio, Lombardia e Basilicata) e poi lo stesso Parlamento italiano.
Quel voto ha fatto emergere chiaramente una forte insoddisfazione dell’opinione pubblica per il degrado della vita politica, che ha indotto l’elettorato a pronunziarsi massicciamente contro il sistema, in parte “in negativo” (cioè astenendosi), ed in parte “in positivo” (cioè votando per chi si è offerto di portare la protesta dentro le istituzioni).
Al di là della fascia di astensione fisiologica (circa il 35% dell’elettorato), a me pare che si tratti, in entrambi i casi, di un forte segnale di interessamento verso le vicende della politica, e bene ha fatto Antonio Pileggi, con un suo recente e stimolante articolo su questo stesso giornale, a porre come essenziale per la democrazia il tema della partecipazione dei cittadini alla vita della società, questa essendo la domanda che da quel voto emerge, quale che sia stata la formula (negativa o positiva) utilizzata per esternarla: se si reagisce (in un modo o nell’altro), significa anche che si vuole essere coinvolti nelle scelte.
Resto convinto che qualsiasi moderna società, grande nei numeri e complessa nei problemi, non possa fare a meno della democrazia rappresentativa, valida per un limitato periodo di tempo, con un mandato sottoposto alla verifica delle successive elezioni, anche se non mi nascondo che la verifica “a consuntivo” non sempre ottiene il risultato fisiologico, che è quello di premiare i comportamenti virtuosi e penalizzare quelli viziosi.
Il fatto sì è che la democrazia diretta, quella che ovviamente consente il massimo della partecipazione, era immaginabile nelle società antiche (l’agorà greca, il foro romano), quando i problemi da affrontare erano quelli elementari della vita di ogni giorno e quando i cittadini titolati ad esercitare il potere decisionale erano tanto pochi da essere contenuti nella piazza o nel foro.
C’è chi dice che oggi ci sarebbe anche la grande piazza virtuale rappresentata dal web e dalla possibilità pressoché illimitata di assumere conoscenze e manifestare opinioni in tempo reale, ma credo che questo scenario appartenga al futuro non prossimo, quando il processo di alfabetizzazione informatica avrà compiuto il suo ciclo virtuoso e quando si sarà acquisita la certezza di potere neutralizzare ogni capacità di manipolazione e di tecnicalità subliminale, tuttora presente nella realtà del web e comunque nell’immaginario collettivo, che ne avverte la pericolosità.
Ed allora, il problema, qui ed oggi, è quello di mettere insieme democrazia rappresentativa e partecipazione effettiva, che non si esaurisca cioè nel momento elettorale, consentendo invece al cittadino di potere esercitare i suoi diritti costituzionali anche nel periodo che intercorre tra un’elezione e l’altra.
Gli strumenti, se proprio si vuole, ci sarebbero, e si potrebbero agevolmente introdurre, sia sul piano delle scelte del personale politico, sia su quello della individuazione dei programmi da realizzare.
Per un verso, basterebbe ricorrere a quello che nei paesi di common law viene definito “power of recall” (potere di revoca), e cioè la possibilità di revocare il mandato rappresentativo attraverso un’apposita votazione, tutte le volte che se ne verifichino i presupposti (il c.d. “wrongdoing” = cattivo comportamento),
Sarebbe così possibile attivare la responsabilità politica del rappresentante, anticipando i meccanismi della responsabilità amministrativa, contabile o penale, che hanno tempi e procedure chiaramente incompatibili con l’effettiva partecipazione dei cittadini al controllo di chi è stato delegato ad occuparsi della cosa pubblica.
Si tratta di un istituto già presente in alcuni stati degli USA (p.e.: California, Montana, Arizona,Nevada,etc.), e la cui introduzione è stata di recente proposta nel Regno Unito da Lord Tyler (liberaldemocratico), con un progetto che non è andato in porto, ma che è stato poi ripreso dal deputato conservatore Douglas Carswell.
Il progetto potrebbe essere proposto anche in Italia con un’apposita riforma, inevitabilmente costituzionale, sulla quale i liberali farebbero bene ad impegnarsi nel loro programma per la prossima Legislatura.
Ovviamente, il “power of recall”, perché si possa esercitare, presuppone che il singolo parlamentare interessato sia eletto in un singolo collegio, e sia quindi diretta espressione di quegli stessi elettori che poi saranno chiamati a revocarlo, e ciò per l’evidente ragione che la sua eventuale revoca deve coinvolgere solo il revocando, lasciando impregiudicati gli equilibri politici generali.
E credo che questa sia una ragione in più perché, in sede di riforma elettorale, se mai si arriverà a farla, piuttosto che reintrodurre il sistema delle preferenze (gravido di potenziali pericoli, di cui è piena la cronaca), venga privilegiato il sistema del collegio uninominale, che è l’unico che consente di esercitare la revoca individuale e poi l’eventuale sostituzione con apposita elezione suppletiva.
Per altro verso, occorrerebbe introdurre il c. d. referendum propositivo, che da tempo dà buona prova di sé negli USA (assieme alle elezioni presidenziali e parlamentari, si svolgono normalmente in quasi tutti gli stati dell’Unione innumerevoli referendum sulle materie più varie) e nella Confederazione Elvetica, come anche, già oggi, in alcuni statuti delle regioni italiane (p. e. nel Lazio) ed in molti statuti comunali..
I nostri Costituenti avevano a suo tempo preferito escluderlo questo strumento legislativo, immaginando che esso potesse venire in qualche modo sostituito dall’iniziativa legislativa popolare (art. 71 Cost.), ma l’esperienza ha dimostrato che si è trattato di un surrogato assolutamente inutile, avendo il Parlamento sempre evitato di dare seguito alle proposte popolari che gli sono state di volta in volta presentate.
Che è poi ciò che è accaduto, in particolare, nel caso della proposta promossa da Grillo sin dal dicembre del 2007, per introdurre nell’ordinamento l’ineleggibilità dei condannati in via definitiva, la sospensione dall’incarico parlamentare per i condannati in via non definitiva, nonché il tetto di due mandati elettorali.
Proprio lo scorso anno, il Senato, investito della trattazione, si è rifiutato di esaminare questa proposta, dimostrando emblematicamente il sostanziale distacco del Parlamento rispetto al comune sentire dell’opinione pubblica; e non è ultroneo pensare che anche questo comportamento, unitamente ai molti ladrocini degli ultimi tempi, possa essere stato causa non ultima del ciclone elettorale che sta investendo le istituzioni rappresentative della Repubblica.
Ad introdurre il referendum propositivo nella nostra Costituzione ci aveva provato la Commissione Bicamerale presieduta da D’Alema, poi naufragata per il c.d. “rovesciamento del tavolo” ad opera di Berlusconi.
Penso che anche questo progetto dovrebbe trovare adeguato spazio nel programma che i liberali dovranno predisporre in vista del prossimo impegno elettorale.
Se queste due semplici riforme venissero introdotte, ne risulterebbe implementato, in termini significativi, il livello della partecipazione dei cittadini alle scelte fondamentali della vita politica, sia quanto agli uomini delegati a rappresentarli, sia quanto ai programmi da realizzare.
E, forse, ci sarebbe minore spazio per la mera protesta, che, quando si traduce nell’astensione, non incide minimamente né sugli eligendi né sull’agenda della politica, e quando si traduce in un voto antisistema può addirittura aumentare la confusione e peggiorare le cose.