Commisurare l’indennità parlamentare al reddito complessivo
Non sempre e non tutto quello che va bene negli USA, si adatta al nostro Paese. Il provincialismo italiano emerge a volte da forme di antiamericanismo preconcette, come dalla abitudine di imitare soluzioni o mode americane, talvolta non adatte ad essere importate, perché in contrasto con le nostre tradizioni.
Il senatore del Partito democratico Mauro Agostini ha presentato una proposta di legge di un solo articolo, col seguente contenuto: “Ai membri del Parlamento è fatto divieto di percepire un reddito extraparlamentare annuale, derivante da lavoro autonomo o dipendente, superiore al 15% del trattamento complessivo massimo lordo annuo, riconosciuto ai magistrati con funzione di Presidente di sezione della Corte di Cassazione o equiparate”.
In Italia, come in America, infatti, le retribuzioni dei parlamentari sono equiparate a quelle dei magistrati, anche se, per la verità, negli ultimi decenni, agli aumenti di stipendio dei magistrati, non ha corrisposto l’adeguamento dell’indennità parlamentare, che si è attestata conseguentemente ad un livello inferiore. In sostanza la proposta di Agostini sarebbe quella di non consentire ai parlamentari altri redditi da lavoro, cumulabili con quanto percepito dalla Camera di appartenenza, che superino i 25.00,00 euro l’anno.
Pur condividendo il principio da cui muove, tale proposta mi sembra sbagliata.
I parlamentari lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, hanno diritto alla aspettativa ed alla ricostruzione della carriera. Essi sono avvantaggiati quindi nei confronti dei professionisti, degli imprenditori o dei commercianti, perché non perdono nulla, mentre questi ultimi, se non garantiscono la continuità della propria attività professionale o di impresa, alla fine del mandato, come è avvenuto sovente, ne ricevono un danno notevole. Essi sono pertanto costretti a proseguire il proprio impegno lavorativo, anche durante il periodo di svolgimento del mandato politico. Ne consegue che basterebbe ribaltare il principio adottato negli USA, per ottenere un doppio vantaggio, per l’Istituzione e per le finanze pubbliche, scegliendo la strada inversa a quello adottata negli USA.
La Camera di appartenenza sarebbe obbligata a versare al proprio membro, titolare di altri redditi da lavoro, soltanto, una cifra pari alla integrazione con l’indennità parlamentare, incrementata del 15%, ove tale livello non sia stato raggiunto autonomamente . Dal Parlamento, in tal modo, non verrebbero espulsi di fatto professionisti o imprenditori di successo (basti pensare a personalità come Tremonti, Veronesi, Consolo, Pecorella) che elevano la qualità dell’Istituzione e si realizzerebbe una riduzione di costi molto significativa. Altrimenti si registrerebbe un ulteriore scadimento della qualità del ceto parlamentare, già abbastanza degradata, a causa della abolizione del voto di preferenza, che ha riempito di fedeli, privi di professionalità, le assemblee legislative.
I partiti mantengono ancora un residuale interesse ad inserire, a scopo di propaganda, alcune personalità di prestigio, che da una norma come quella proposta dal Sen. Agostini, verrebbero indotti a rifiutare l’offerta, mentre, se si trattasse di rinunziare, in tutto o in parte alla indennità parlamentare, in considerazione dell’elevatezza dei redditi prodotti con il proprio lavoro, molto probabilmente non avrebbero nulla in contrario.
Questo piccolo esempio dimostra come, per introdurre riforme giuste, quella di copiare dagli esempi altrui, non è sempre la scelta più giusta, né la migliore.
Stefano de Luca