A costo di apparire nostalgici
Ho deciso di usare il termine “ideologia”, considerato politicamente scorretto e cancellato dal vocabolario della politica per editto inappellabile. Eppure questa parola, per quelli della mia generazione, ha avuto un significato stupendo, perché racchiudeva il sogno di un impegno civile. Imponeva di studiare, approfondire, cercare di leggere il nostro tempo per capirlo, per stabilire la cifra della nostra maturità culturale e progettare l’utopia, per sentirci architetti del futuro, in grado quotidianamente di confrontarsi con le scuole di pensiero concorrenti.
Da quando questa espressione, allora magica, è stata messa fuori legge, il mondo ci è apparso diverso, come se fosse venuta meno la speranza di poterlo cambiare. E’ stato come se la nostra pietanza favorita, quella per la quale facevamo follie, avesse perso ogni sapore, ogni profumo, ogni colore. La calda e gustosa polemica ideologica, alimento spirituale della nostra adolescenza, che ci aveva aiutato a crescere, dato una ragione alta all’impegno della nostra vita, è stata sostituita da un greve vociare da mercato, in cui, al ragionamento, è subentrato un barbarico accaparramento del consenso sulla base di programmi, quasi sempre uguali tra loro, enunciati in forma di slogan pubblicitari per far prevalere chi gridava di più e puntualmente essere dimenticati, dopo le elezioni.
Ci è mancato e ci manca quel riferimento romantico al complesso dei valori dai quali scaturivano le nostre scelte e non siamo riusciti ad abituarci ad un pragmatismo, tutto fondato su programmi astratti. Nessuno di quei progetti acchiappa voti è mai stato realizzato, anzi sono stati immediatamente accantonati, in nome di una realpolitik, rivelatasi soltanto un miserabile corporativismo a spese dell’erario.
Per servilismo verso quella parte politica, che per troppo tempo aveva esercitato una assoluta egemonia culturale, nessuno, o quasi, quando l’ideologia basata sul socialismo reale è morta, assassinata dalla Storia ed è crollata miseramente da un giorno all’altro, si è opposto alla apodittica affermazione venuta dalla parte degli sconfitti, secondo cui era finito il tempo delle ideologie, tutte travolte dal vento del cambiamento. Non uno ha alzato la mano per affermare che soltanto quella comunista, era miseramente crollata (come era avvenuto nella prima metà del secolo scorso per Fascismo e Nazismo) mentre le altre, in particolare quella liberale vincente nel mondo, erano vive ed attuali. Per noi, che avevamo creduto in una società divisa in scuole di pensiero, le quali si contendevano il diritto di decidere il futuro in base alla appetibilità del rispettivo progetto ideale, è stato come se ci avessero espropriato il diritto a sognare il futuro, condannandoci a vivere in un eterno presente, sempre più materialista ed asfittico, privo di speranze e di fondamento morale.
I due pensieri politici prevalenti nella seconda metà del novecento, il liberalismo ed il socialismo, sono stati delegittimati e degradati a residui del passato, da mandare in discarica. Al loro posto, sono state messe in campo delle specie di caricature. Il grande pensiero liberale, con la sua meravigliosa scommessa sugli individui, che, una volta assicurato il doveroso diritto all’eguaglianza dei punti di partenza, permette ai singoli di crescere liberamente diseguali, è stato sostituito da un becero liberismo economico, responsabile della feroce globalizzazione e della dittatura finanziaria.
In vece del socialismo, con la sua utopia di giustizia sociale in una comunità di individui eguali, (che hanno come fine ultimo lo Stato ed al cui successo devono contribuire tutti gli appartenenti ad una medesima comunità nazionale) si è fatta avanti una nuova sinistra conservatrice, (molto simile alla destra sociale) protesa verso la realizzazione di uno Stato assistenziale, che avrebbe l’obiettivo di occuparsi di ogni cittadino dalla culla alla bara, togliendogli ogni spirito competitivo.
Si è affermata, nei fatti, una sorta di turbo capitalismo, con forti connotazioni consumistiche, che ha teorizzato il culto della ricchezza come misura del successo, rispetto all’austera concezione etica del liberalismo classico, che concepisce il tratto distintivo della borghesia, prima ancora che nella pur non demonizzata aspirazione al benessere economico, in una forte consapevolezza morale dell’importanza del proprio ruolo di classe emergente nella società. Sono scomparse le figure del grande funzionario dello Stato, come del severo insegnante o dell’austero militare, cui erano affidati i compiti più delicati, secondo la visione dell’epoca, per non dire di quegli artigiani, fantasiosi e dediti al sacrificio, che sono stati la colonna portante di una grande rivoluzione industriale e tecnologica, che ha generato il sistema vincente delle nostre piccole e medie imprese.
Anche nel campo socialista, alla responsabile lotta sindacale per assicurare condizioni migliori e più umane al lavoratore, per incrementarne il salario, garantire una buona previdenza sociale e sicurezza del lavoro, si è sempre più sovrapposto un sindacato, che fa prevalentemente politica e si dedica alla richiesta di vessazioni tributarie nei confronti delle altre categorie, piuttosto che al miglioramento della qualità della vita dei propri associati.
Si fronteggiano due assistenzialismi, uno di destra ed uno di sinistra, motivati entrambi dal desiderio di ottenere sempre maggiori privilegi per le rispettive categorie e corporazioni di riferimento, ignorando le compatibilità finanziarie del bilancio dello Stato. Tutto questo ha prodotto l’esplosione del debito pubblico e l’innalzamento fuori misura del carico tributario, producendo il fenomeno, ben descritto nella paradossale curva di Laffer, secondo cui, ad un eccessivo aumento della pressione fiscale, corrisponde puntualmente una caduta di gettito, per i meccanismi di autotutela che il fenomeno stesso produce. Assistiamo ogni giorno in Italia ad episodi del genere, laddove aziende in difficoltà, per non perdere il patrimonio costituito dalla specializzazione dei propri operai, preferiscono pagare gli stipendi, piuttosto che onorare le scadenze tributarie, divenute oppressive e sovente ingiuste e che molte imprese non riescono ad onorare per materiale impossibilità. Negli ultimi anni è cresciuto così, accanto alla evasione tradizionale, principalmente legata al riciclaggio ed al malaffare, il nuovo fenomeno dell’evasione per necessità, come ultima difesa rispetto al dramma dei fallimenti a raffica. Eppure alcuni trinariciuti, inguaribili nostalgici dello Stato di polizia, sostengono che bisognerebbe rafforzare la lotta all’evasione e che bisognerebbe introdurre una ulteriore imposta patrimoniale. Si susseguono messaggi propagandistici, i quali finiscono col creare un forte contrasto sociale, che sovente trascende in odio. Come si può pensare che di fronte ad un contesto economico generale tanto debole, con uno Stato così indebitato, la mano pubblica possa sostenere le migliaia di esuberi per aziende che chiudono, falliscono o delocalizzano?
Su questo terreno concreto dovrebbero confrontarsi le forze politiche, compiendo la scelta impopolare di affermare con chiarezza che non si possono più sostenere produzioni fuori mercato, attraverso la concessione all’infinito della cassa integrazione in deroga. Se le stesse somme fossero investite per favorire nuove assunzioni in imprese innovative, ne conseguirebbe, in termini di resa, un effetto moltiplicatore, mentre il sussidio improduttivo della cassa integrazione, oltre un certo periodo, produce soltanto rassegnazione, impossibilità di recuperare quel lavoratore, oltre all’esplosione, a danno dei giovani, del lavoro nero.
Di fronte alla urgente necessità di rinnovare completamente la politica, di compiere uno sforzo eccezionale per limitarne i vizi e riconciliarla con la cultura, di alzare tra gli schieramenti contrapposti il muro invalicabile della difesa ideologica, (piuttosto che una formale separazione priva di significato tra destra e sinistra) l’ultimo nato tra i partiti italiani, dimostra di non essere interessato ad imboccare una rigorosa strada identitaria, scegliendo di chiamarsi “Nuovo centro destra” e con l’obiettivo di rivolgersi ai moderati.
Ma che significa centro destra? Se si trattasse dei conservatori nostalgici del ventennio mussoliniano, c’è già un’ampia offerta: Storace, con la sua destra dura e pura, La Russa con i suoi fratelli d’Italia ed una miriade di formazioni, anche molto attive nelle piazze, che stanno tentando di trovare un’intesa per far tornare in campo il simbolo di Alleanza Nazionale. Perché la formazione di Alfano dovrebbe cercare di entrare in questo mercato, fanatico e molto presidiato da forze tradizionali?
Un simile quadro politico rinnovato, anche se potrebbe apparire simile a quello della Prima Repubblica, avrebbe il pregio di riunire per omogeneità identitaria e culturale le varie forze, mettendo i liberali con i liberali, i popolari con i popolari, i riformisti con i riformisti ed i conservatori con i conservatori, al medesimo tempo lasciando ai margini del contesto democratico gli ultimi nostalgici comunisti e fascisti, in via di estinzione.
Determinante per la realizzazione di tale processo, sarà la riforma del sistema elettorale, abbandonando l’illusione di conoscere la sera stessa delle elezioni, quale sia la coalizione di Governo, che, a meno della schiacciante vittoria di un singolo partito, oggi impensabile, dovrà passare attraverso un accordo programmatico complesso tra le forze rappresentate in Parlamento.
Tratto da Rivoluzione Liberale